Turandot. I turbamenti onirici di Barberio Corsetti

Turandot (Atto I - photo: Marco Brescia & Rudy Amisano - teatroallascala.org)|Turandot (Atto III - photo: Marco Brescia & Rudy Amisano - teatroallascala.org)
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Turandot (Atto III - photo: Marco Brescia & Rudy Amisano - teatroallascala.org)
Turandot (Atto III – photo: Marco Brescia & Rudy Amisano – teatroallascala.org)

Sorge dai turbamenti onirici del Principe Ignoto l’ultima opera di Puccini nella versione di Giorgio Barberio Corsetti. Nuova produzione del Teatro alla Scala e nuovo arrivo per il regista romano, il quale giunge per la prima volta nel teatro milanese, dopo un percorso piuttosto ricco di regie d’opera, rivelando sempre notevole passione e splendidi risultati nell’affrontare il teatro musicale da Schönberg a Gaspare Spontini, da Fabio Vacchi a Rossini.

“Turandot” nasce come favola, sorgendo dalla fiaba drammatica dell’“Amore delle tre melarance” di Gozzi, per diventare qualcosa di simile nella messa in scena di Corsetti: un lungo sogno che copre l’intera opera. Turandot non esiste, Timur, Liù, il boia inneggiato dalla folla bramosa del sangue delle teste dei principi decapitati non esistono; l’amore, l’odio, la vendetta, la gioia del ritrovare un padre perduto neppure. Sono tutti frutti delle elaborazioni oniriche della mente del Principe Calaf, unico personaggio davvero reale davanti ai nostri occhi.
Ma come comprendere che un uomo semplicemente steso a terra, nell’atto di alzarsi ad inizio d’opera e nello stesso identico speculare atto di riabbassarsi e stendersi al termine, sia l’unico creatore di questo lungo sogno?

Quando nel 2002 la Scala iniziò il discusso intervento di restauro terminato nel 2004, ci mostrò immagini di sé che spaventarono. Voragini frutto della rimozione e ricostruzione totale della torre scenica, per arrivare ad avere un palcoscenico che consentisse nuovi soluzioni scenotecniche, con una torre alta 56 metri e la possibilità per il palco di scendere a quota meno 18 di profondità.
Ecco, il lavoro scenografico condotto da Corsetti e da Cristian Taraborrelli, con cui il regista firma scene e costumi, si sviluppa sulla linea di queste possibilità scenotecniche del teatro, e non sarebbe mai stato possibile se quel restauro non fosse avvenuto.

Tutto ha inizio da un palco vuoto, quando ad un tratto davanti agli occhi sognanti di Calaf sorge, dalle remote profondità della terra, la Città Imperiale. L’idea è bella: veder spuntare un intero villaggio dal nulla, vederlo salire con tutti i suoi abitanti, vederlo vivere come un’apparizione notturna, pian piano conoscerlo, entrandoci dentro come si entra nei sogni o meglio negli incubi, e di volta in volta vederselo apparire e scomparire davanti. Eppure, scoperto il gioco dell’affiorare in superficie e dello svanire in profondità di personaggi e costruzioni, lo stupore iniziale si esaurisce se non viene supportato da altri elementi, soprattutto in virtù di quanto ci si aspetta da uno degli ‘inventori della scena’ più fantasiosi, dai tempi della Gaia scienza o dello studio Azzurro ad oggi.

Il villaggio e la Reggia Imperiale, da fiabeschi luoghi delle immaginazioni di Gozzi e Puccini, diventano qui architetture stilizzate, ma comunque massicce nel notevole utilizzo di un pesante e scuro legno, forse poco riconducibile ad una sfera da sogno che, magari ingenuamente, si considera più eterea, leggera, impalpabile anche nel suo essere inquietante e feroce. Massimo esempio la scena di quel bacio con cui Calaf vince definitivamente la Principessa di gelo, inizio del dolce finale aggiunto da Alfano.

Subito dopo la morte di Liù, personaggio lasciato curvo e stanco, mediamente inerte tranne l’imprescindibile gesto finale (mentre sarebbe potuto essere fonte inesauribile di racconto – in fondo è una donna forte, coraggiosa, una donna che si uccide perché l’uomo che ama possa vivere e per far sì che l’amore possa tornare ad essere il valore che definisce le relazioni quotidiane di tutti), ecco subito dopo la morte di quel piccolo corpo, Corsetti fa innalzare un muro, sempre di legno scuro, che chiude come in trappola Turandot. La Principessa tenta di sfuggire difendendosi anche con un coltello, ma alla fine, non potendo scappare da quella gabbia, è vinta, e in quell’angusta fetta di palcoscenico lo spirito di vendetta si trasforma mestamente in calore. Un calore che potrebbe essere esplosivo ma rimane volutamente sommesso.

Turandot (Atto I - photo: Marco Brescia & Rudy Amisano - teatroallascala.org)
Turandot (Atto I – photo: Marco Brescia & Rudy Amisano – teatroallascala.org)

Di grande tensione il momento della maledizione lanciata da Timur alla morte di Liù. Mentre pronuncia le parole “Delitto orrendo. L’espieremo tutti!” seguiamo catturati l’indice tremante della mano del vecchio padre di Calaf, che si alza e punta prima ciascun abitante di Pechino, poi Turandot, la quale reagisce come tutti gli altri, torcendo spaventata corpo e testa all’indietro come per schivare una freccia. Ma quella mano e quell’indice raggiungono alla fine del giro anche il suo stesso figlio Calaf, che ne rimane impietrito. Ulteriore conferma del valore inestimabile di quella piccola schiava trascurata.

Interessante l’idea di accompagnare le tre maschere Ping, Pong e Pang con altrettanti acrobati, “aiutanti scatenati”, come li definisce Corsetti stesso, che appaiono, scompaiono, saltellanti davanti agli occhi del Principe. Qui il regista decide di riutilizzare la tecnica del Chroma Key, mirabilmente sperimentata in lavori precedenti come “Tra la terra e il cielo” o “La pietra del paragone”, opera in cui mise a punto l’invenzione con Pierrick Sorin, artista che firma i video anche in Turandot.
Nonostante la scarsissima visibilità dai palchi più alti all’estrema destra del teatro, i video inseriti come contraltare delle azioni di Ping, Pong e Pang non sembrano però avere la stessa forza delle precedenti sperimentazioni, restando citazioni, episodi sostanzialmente a sé rispetto all’impianto generale dell’opera.

Molto ‘manga’ le guerriere che circondano e proteggono la protagonista dell’opera di Puccini, che impugnano e stringono, forse con qualche malizia, le lance con cui puntano minacciose Calaf durante i tre enigmi.

Bella la scena finale nella sua pulizia e purezza: sul palco vuoto personaggi che, da cupi e indistinti, diventano tutti bianchi e davvero corpo unico. Peccato che alla fine il Principe, invece di godersi la Principessa tanto faticosamente conquistata, le volti le spalle per andare a stendersi a terra, solo per mostrarci che il sogno è finito.

Turandot
di Giacomo Puccini

Nuova produzione Teatro alla Scala

Dal 10 aprile al 13 maggio 2011

durata spettacolo: 3 ore
applausi del pubblico: 7′ 10”

Cantato in italiano con videolibretti in italiano, inglese

Direttore: Valery Gergiev (10, 12, 13, 15, 16, 19, 20, 22 aprile) – Daniele Callegari (6, 8, 11, 13 maggio)
Regia: Giorgio Barberio Corsetti
Scene e costumi: Giorgio Barberio Corsetti e Cristian Taraborrelli
Coreografia: Ricky Sim
Luci: Fabrice Kebour
Collaborazione video: Pierrick Sorin

Turandot: Maria Guleghina (10, 13, 15, 19, 22 aprile) – Lise Lindstrom (12, 16, 20 aprile; 6, 8, 11, 13 maggio)
Timur: Marco Spotti
Calaf: Marco Berti (10, 13, 15, 19 aprile) – Stuart Neill (12, 16, 20, 22 aprile; 6, 8, 11, 13 maggio)
Liù: Ekaterina Scherbachenko (10, 13, 16, 20 aprile; 6, 11 maggio) – Maija Kovalevska (12, 15, 19, 22 aprile; 8, 13 maggio)
Ping: Angelo Veccia
Pang: Luca Casalin
Pong: Carlo Bosi
Mandarino: Ernesto Panariello
Principe di Persia: Jaeheui Kwon

Visto a Milano, Teatro alla Scala, il 20 aprile 2011

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