Ma tu cos’hai visto? Sulla Turandot di Ricci/Forte con accenni di Butterfly

Madama Butterfly (photo: Rosellina Garbo)|La Turandot di Ricci/Forte
Madama Butterfly (photo: Rosellina Garbo)|La Turandot di Ricci/Forte

Qualcuno fischia e lancia addirittura qualche grido. Un giornalista della fila davanti, dopo rapido sguardo al vicino, si affanna su whatsapp. Attenzione, vorrei dirgli, non è tutto pubblico d’opera, questo che riempie lo Sferisterio di Macerata con il quarto (strombazzato) tutto esaurito di Ricci/Forte. Ci sono anche spettatori di teatro contemporaneo, ci sono curiosi e forse un’affettuosa piccola claque. Ma i fischi comunque sono “all’americana”: di consenso. Un solo “bu” spunta da destra, senza seguito, e la perplessità è muta.

Ben altra è stata la reazione della sala alla messinscena “tradizionale” di “Madama Butterfly”, trasportata nel secondo dopoguerra. Consenso composto, più leggibile.
Nella parte della protagonista la star del Macerata Opera Festival, Maria Jose Siri, che Macerata sente un po’ come “sua” per averle fatto esordire con successo “Norma” nella scorsa stagione.
Canta una Cio-Cio-San dolce, più sinceramente giovanile che vezzosamente bamboleggiante, morbida di una voce naturale e sana. L’accompagna lo spavaldo Pinkerton di Antonello Palumbo, dal fraseggio personale e spiccato nel principio, ma di atto in atto sempre meno a fuoco.

La regia di Nicola Berloffa restituisce al testo pucciniano ciò che l’autore, di revisione in revisione, era andato sfumando: il contesto dello scontro di culture, americani contro giapponesi, e il carattere troppo disinvolto, quasi volgare del luogotenente che spadroneggia sul suolo straniero.
Nel primo atto, si concede poca intimità ai due novelli sposi, e frotte di marinai e geishe si aggirano sulla scena occasionalmente inquinando il lungo duetto sentimentale dell’opera.

L’enorme spazio scenico simmetricamente ripartito riproduce una sorta di teatro in dismissione, genericamente orientale, per evolversi nel secondo e terzo atto in una sala cinematografica, a significare il tentativo della fanciulla giapponese, in attesa del ritorno dello “sposo”, di mutare i propri costumi in quelli americani. Cio-Cio-San da cantatrice s’è fatta proiezionista.

La sinfonia di colori che Puccini aveva immaginato nel preludio del terzo atto viene traslata, durante il coro a bocca chiusa del secondo, su proiezioni di sequenze acquatiche di Esther Williams – insospettabilmente funzionali e assonanti.
In questo cinema un po’ arrangiato, lo Sharpless efficace di Alberto Mastromarino (timbro molto asciutto ma morbido, e sicuro di una collaudata presenza scenica) tenta, quasi paterno, di mostrare alla fanciulla la vanità delle sue speranze.
Grandi applausi alla beniamina di casa, a tutti gli interpreti sul palco (malgrado qualche momento un po’ scoordinato nel coro) e a Massimo Zanetti, che tiene insieme l’orchestra con carattere e sfumature che solitamente non ci si aspetterebbe in un’esecuzione all’aperto.

Poi, ventiquattr’ore dopo, la “Turandot scandalosa”, tanto voluta dal direttore artistico Francesco Micheli. E nella larga mezzaluna schiacciata della platea dello Sferisterio, tra il primo e il secondo atto, il pubblico, quello d’opera, si divide in fazioni: qualcuno si accalora («Ma tu cos’hai visto? Eri qui o no? E allora…!») o tace con la fronte corrugata, come quando si rifanno dei conti che non tornano. Un uomo sui trenta, grasso e dalla piccola testa coperta di un tenue piumaggio, si affanna tra i diversi conoscenti sparpagliati per i vari ordini di posti, attraversando i corridoi con passo elastico. Altri gruppi scuotono la testa, gli angoli della bocca verso il basso, l’incomprensione e la rabbia. Due coppie di anziani pensierosi, gli uomini con la testa coperta, le donne serenamente malvestite si interrogano a vicenda: «Ma il Principe di Persia? Tu l’hai visto? Perché sono morti tutti quei bambini? E quei meccanici, e l’orso polare? Le gabbie, le piante di serra…». Un ragazzo, affannosamente in ritardo, porge il biglietto a una maschera, ma è solo una donna in tailleur che lo riguarda silenziosa, senza espressione. Altre ragazze abbronzate, troppo eleganti, lunghe gambe, fumano stropicciando la contromarca o ritagliandosi spazi sghembi nei selfie. Un’anziana giornalista francese sorride, prende appunti. Un altro, con un vaporoso fazzoletto al collo, mi cita la Fura dels Baus, molte idee già viste…

Intanto, dietro le quinte, il soprano esordiente nel ruolo, la giovane France Dariz, si guarda nello specchio, mentre le mani della parrucchiera le si affannano sopra. Al suo posto avrebbe dovuto esserci Irene Theorin, ma per un incidente ha potuto cantare solo la prima; così eccola, esordiente nel ruolo, a sostituirla per tutte le successive recite. Musicalmente appare a suo agio, forse manca un po’ di mordente – è più spaventoso ciò che dice, che come lo dice – ma la luce e la morbidezza della voce brillano anche al di là questa cautela. Secondo lo spartito la sua prima nota figura a metà del secondo atto, ma la regia l’ha voluta in scena fin dall’inizio, a cavalcioni di un orso polare e a tenere le fila di un manipolo di sue emanazioni, vestite ora come squadre d’assalto, ora come operatori di macchinari, o scienziati di laboratorio, a organizzare l’immenso circo del terrore attorno al regno della principessa di ghiaccio.
Turandot: la principessa che non vuole essere amata e uccide ogni pretendente a cui sfugga la soluzione dei tre enigmi che lei gli proporrà.

La Turandot di Ricci/Forte
La Turandot di Ricci/Forte

Poco più in là il tenore coreano, ormai quasi italiano d’adozione, siede forse da solo, chiude gli occhi, guarda dentro di sé ai due atti che ancora l’aspettano. Avrà cantato cento volte quel ruolo, è la sua specialità. Grande, esperto ma giovane, generoso di corpo e di spirito, Rudy Park stasera soffre, lo si sente. Il colore della voce è sempre bellissimo e il volume considerevole, ma l’interpretazione è come incartata in un pesante ponteggio che deve sostenere tutto l’edificio. Un edificio preoccupante. Gli acuti velati e incerti sono presi tutti di forza con uno slancio che gli parte dai piedi e che ogni volta lo fa impennare come in uno strenuo balzo, muscolare, quasi che quella nota lassù si lasciasse raggiungere solo con un morso.

«Tu cos’hai visto?» mi chiede l’anziana giornalista francese – un altro atto è passato, siamo alla fine del secondo.
Non la Cina, certo, non “il tempo delle favole” che il libretto di Adami e Simoni impostava simbolicamente. E molti passi di testo e didascalie sono ignorati, ma la storia è quella: una donna potente e glaciale scopre l’amore, e con esso la vita, grazie a un ignoto straniero, al suo sentimento immenso imperscrutabile e apparentemente ingiustificato, al suo coraggio.

Ma non siamo in quel tipo di regie pretestuose o che navigano provocatoriamente controcorrente. Anzi, talvolta le simbologie rintracciate sono così candide da far sorridere: il ghiaccio per il freddo, i costumi verdi del coro come le piante di serra, innaturali, coltivate a forza di concimi, il sangue in cui la protagonista si intride (primo rapporto sessuale? estasi della carneficina?) nella scena degli enigmi.

La Turandot di Ricci/Forte è una regina non invisibile né intoccabile, anzi carnale, fisica e presente: comanda a bacchetta un nugolo di servitori che isolano germi, coltivano piante in serra, muovono e pilotano i personaggi, per un certo periodo incastrano nelle loro maglie persino Calaf e Liù, la dolce schiava che lo ama senza poterne ricevere il contraccambio.

Poi nel secondo atto, nella scena degli enigmi a cui la “principessa di gelo” sottopone il principe ignoto, passo dopo passo egli si svincola da quelle forze oscure, se ne libera definitivamente, e quei servitori si spogliano del loro costume da lavoro, sciogliendosi come burattini a cui abbiano tagliato i fili. Ora sono nudi, stremati: resi inutili, uomini addirittura.

Tre enormi parallelepipedi trasparenti sono mobili sul palco e ospitano ora i personaggi, ora oggetti scenici, ora i bambini che vengono uccisi nel primo atto, dopo essere stati bendati e fatti inginocchiare.
La perfezione tecnica nella gestione degli spazi scenici a cui Ricci/Forte sono arrivati, pur non privi del loro solito armamentario (il bianco abbagliante, le luci glaciali, anche con fonti a vista, come gli enormi panel led, gli animaloni…), è ragione di stupore e conferma insieme, così come alcune trovate che non saprei definire altrimenti: belle, e teatralmente incontrovertibili.

Il terzo atto: Calaf esce indenne e anzi ristabilito da un “Nessun dorma” ben cantato, che è già metà del successo; Liù si impossessa di una rivoltella e, dopo aver minacciato coro e principessa si suicida così, e il popolo compiange la povera amante, ma non riesce a evitare di scattare foto col cellulare alla salma mentre viene portata a braccia dai soliti servi di Turandot. E il finale: la principessa di gelo “sghiacciata”, spogliata dei protervi abiti da diva, può rimane in una semplice casacca grigia; dietro, il coro che alza e ruota lettera per lettera i cartelli che riportano la sentenza secondo cui: «Chi ha paura muore ogni giorno».

Un occhio alla scena, che è cambiata nuovamente, in tutti i parametri, sia cromatici che spaziali (una lunga striscia di tela scura tenuta dal coro in parata, e davanti i protagonisti, tutti in grigio scuro). E un occhio alla frase («Ma che c’entra Borsellino, dimmelo tu!»), che non è una citazione da pagina di giornale né da speciale TV: proprio come la scena dei bambini inginocchiati e giustiziati, essa accende per la prima volta nel cervello un segno nuovo di zecca, di cultura nostra e condivisa, ne sancisce il suo trapasso da memoria storica a racconto mitico. Legandosi senza traumi al coraggio del giovane Principe Ignoto, Calaf.

«Cosa ci ho visto io? Tu puoi vederci quello che ti pare, io ti dico com’è stata. Come per tutte le opere, esistono regie “di” e regie “su”. Questa è “su” Turandot. Avresti dovuto vederne le prove. Il progetto è stato fatto a priori, come se non bisognasse badare alle dinamiche di un’opera in musica. Ti faccio l’esempio del coro: non si sapeva che farsene, l’ingombro della sua presenza in scena è stato come una sorpresa, per chi ha pensato la produzione. E così più nel particolare, l’invocazione isolata del Principe di Persia che un corista sbraita in mezzo alla scena, senza senso, mentre la tradizione lo vuole fuori scena. E così anche certi fatti incontrovertibili, anche del libretto: «Il mio vecchio è caduto» dice Liù di Timur, padre di Calaf, vecchio re spodestato (tradizionalmente reso cieco dalle regie), ma il cantante che ne fa la parte non è né vecchio né cade. E…».

«Ma tu cosa ci hai visto, in questa Turandot?» mi chiede ingenuamente una giovane amica, sui vent’anni, dopo aver ascoltato lo sfogo del melomane imbucato alle prove. Usciamo da teatro e camminiamo lentamente.
«Io ci ho visto un’opera politica – le rispondo -, contemporanea. Turandot incarna gli orrori odierni: stragi di innocenti, bambini, ingegneria genetica sfrenata perché tutto risponda alle nostre necessità. Il cinismo pure è quello di oggi, quello di tutti noi che attacchiamo a parole ciò che ci fa paura ma tiriamo un sospiro di sollievo quando il peggio capita agli altri, e fingiamo partecipazione “immortalando” il dramma altrui – per mai più rivederlo, ovviamente, e consegnarlo al disinteresse con la coscienza pulita. La messinscena nonostante tutto è tradizionale (con mezzi e con un design contemporaneo, certo): c’è il bacio di Calaf a Turandot, e ho detto tutto, il bacio che le fa cadere le ultime difese.
È tradizionale e persino didattica: è possibile guardare veramente in faccia l’orrore e sconfiggerlo? Col coraggio si può, solo Calaf ce l’ha avuto, quando tutto il mondo gli andava contro, e ha vinto la sua sfida. Ecco un insegnamento. Va persino un po’ oltre. Nei loro costumi fattisi scuri, quando il grande spettacolo del male è sconfitto (ed è un bene che sia così), il risultato sembra giusto, certo, felice, ma grigio».

«Ma le le note di regie parlano di Freud, di un mondo tutto interiore, di Turandot come principessa bambina che rifiuta il mondo adulto…».
«Ma tu, cosa ci hai visto?», la interrompo. Risponde che non sa, ma c’è qualcosa che l’ha fatto correre velocemente, tra atto e atto, dall’inizio alla conclusione in una grande emozione, fino al finale. «Una cosa che non mi aspettavo, in una regia che tutti dicevano intellettualistica, fredda. Mi è piaciuta, mi ha coinvolta, mi ha fatto pensare e… non so, partecipare». Quali fossero le intenzioni, quali gli strumenti, è questo il teatro.

Madama Butterfly
cast:
Cio-Cio-San Maria José Siri
Suzuki Manuela Custer
Kate Pinkerton Samantha Sapienza
F. B. Pinkerton Antonello Palombi
Sharpless Alberto Mastromarino
Goro Nicola Pamio
Il Principe Yamadori Andrea Porta
Lo zio bonzo Cristian Saitta
Yakusidé Gianni Paci
Il commissario imperiale Giacomo Medici
L’ufficiale del registro Alessandro Pucci
La madre di Cio-Cio-San Mirela Cisman
La zia Silvia Marcellini
La cugina Maria Elena Mariangeli
Dolore Martino Compagnucci

Direttore Massimo Zanetti
Regia Nicola Berloffa
Scene Fabio Cherstich
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Marco Giusti
Maestro del coro Carlo Morganti
Assistente alla regia Sara Vailati
Assistente alle scene Sofia Borroni
Assistente ai costumi Gaia Tagliabue
Assistente ai movimenti mimici Marta Negrini
Fondazione Orchestra Regionale delle Marche
Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”
Complesso di palcoscenico Banda “Salvadei”
Coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo

Turandot
cast:
La principessa Turandot Iréne Theorin / France Dariz (29/07 – 4/08 – 13/08)
L’imperatore Altoum Stefano Pisani
Timur Alessandro Spina
Il principe ignoto (Calaf) Rudy Park
Liù Davinia Rodriguez
Ping Andrea Porta
Pang Gregory Bonfatti
Pong Marcello Nardis
Un mandarino Nicola Ebau
Il principe di Persia Andrea Cutrini
Ancella Catia Cursini
Ancella Linda Ferrari

Direttore Pier Giorgio Morandi
Progetto creativo Gianni Forte e Stefano Ricci
Regia Stefano Ricci
Scene e luci Nicolas Bovery
Costumi Gianluca Sbicca
Movimenti scenici Marta Bevilacqua
Maestro del coro Carlo Morganti
Maestro del coro di voci bianche Gian Luca Paolucci
Assistente alla regia Liliana Laera
Assistente alle scene Eleonora De Leo
Assistente ai costumi Gianluca Carrozza
Fondazione Orchestra Regionale delle Marche
Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”
Coro di voci bianche Pueri Cantores “D. Zamberletti”
Complesso di palcoscenico Banda “Salvadei”
Coproduzione con il Teatro Nazionale Croato di Zagabria

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