Tra fine Settecento e inizio Ottocento la “Turcheria” era una tipologia d’opera molto di moda, non solo in Italia (lo stesso Mozart la praticò con “Il Ratto dal Serraglio”), a cui nemmeno un genio musicale come Gioacchino Rossini poté sottrarsi.
Dopo aver scritto “L’Italiana in Algeri” Rossini l’anno dopo scrisse quindi “Il Turco in Italia” che, su libretto di Felice Romani (“Sonnambula”, “Norma”, “Elisir d’amore”), debuttò al Teatro alla Scala di Milano il 14 agosto 1814. Qui fu accolta con freddezza, dovendo l’opera paragonarsi alla “sorella” precedente, capolavoro assoluto del pesarese.
L’opera rimase poi in soffitta per molto tempo, per essere infine riportata giustamente in auge negli anni ’50 del secolo scorso per merito di una famosa versione con la mitica Maria Callas.
“Il Turco in Italia”, se osservato da vicino, si discosta parecchio dall’antecedente “Italiana in Algeri” perché naviga in acque più naturalistiche, con caratteri ben precisi e mutevoli, dotati di umanità, e in cui fa capolino la melanconia della sconfitta; mentre la precedente è proprio – come disse Stendhal – “une folie organisée” nel suo geniale, modernissimo e astratto parossismo.
Abbiamo ascoltato e visto con grande piacere “Il Turco in Italia” a Pesaro, attraverso la godibilissima versione dovuta alla regia di Davide Livermore e alla direzione di Speranza Cappucci, in occasione della venticinquesima edizione del Rossini Opera Festival.
E se possiamo asserire che in questo caso di capolavoro non si possa parlare, dobbiamo anche ammettere che si tratta di un’opera “gioiosa” da ascoltare, contenendo molte pagine musicali di grande coinvolgimento.
La storia, che è ambientata nei sobborghi di Napoli, è narrata dal poeta Prosdocimo che, pirandellianamente (e proprio al drammaturgo siciliano il regista pensa, citando subito il prologo dei “Sei personaggi in cerca d’autore”), all’alzarsi del sipario sta cercando dei personaggi per mettere in scena un dramma buffo. Trova pane per i suoi denti in Fiorilla, moglie di Don Geronio, che, al contrario della Isabella de “L’Italiana in Algeri”, non ama un solo uomo ma, nella sua aria più celebre, canta addirittura impunemente “Non si dà maggio follia che amare un solo oggetto”.
Così, andando avanti nel plot narrativo, veniamo a sapere che la nostra Fiorilla, pur essendo sposata con Don Geronio, si lascia anche corteggiare da Selim, principe turco da poco giunto in Italia, che invita persino a casa sua con l’inevitabile indignazione del marito.
Della nostra storia e di quella di Prosdocimo fanno parte anche Zaida, antica amante di Selim, e Narciso, servente di Fiorilla, anche lui innamorato della donna.
Ad un certo punto il Turco propone perfino a Geronio di vendergli Fiorilla (“D’un bell’uso di Turchia…”), proprio come si usa nel suo Paese, ma questi, indignato, rifiuta.
Le cose si complicheranno ulteriormente durante una festa in maschera in cui Selim intende rapire Fiorilla. E’ qui che Zaida, gelosissima com’è, per imbrogliare il Turco si traveste da Fiorilla, mentre lo stesso fa il marito cornuto Geronio, travestendosi da gorilla. Narciso, che ha sentito tutto, decide di travestirsi da Selim per poter, lui, rapire Fiorilla.
Così, nel parapiglia generale (che consente a Rossini di esibirsi in una delle sue pagine magistrali), si susseguono una serie di equivoci in cui, come accade spesso nelle opere rossiniane, “il cervello poverello già stordito sbalordito non ragiona, si confonde, si riduce ad impazzar”, come si canta nel “Barbiere di Siviglia”.
Ovviamente alla fine tutto si aggiusterà: Selim ripartirà con Zaida per la Turchia, mentre Fiorilla, pentita, tornerà dal marito; in questo modo anche Prosdocimo potrà terminare la sua storia.
“Il Turco in Italia” contiene pagine di altissima godibilità, dalla già ricordata cavatina di Fiorilla “Non si dà follia maggiore”, a cui fa da contraltare l’arrivo di Selim “Bella Italia, alfin ti miro”, il duetto “ Siete turchi non vi credo”, che si trasforma pian piano in una bellissima scena d’insieme, sino alla gran scena del pentimento di Fiorilla, “Squallida veste bruna”. Per non parlare della già citata scena della festa in maschera, in cui Rossini si profonde in uno dei momenti più straordinari di tutta la sua intera produzione.
Davide Livermore, a cui piace molto Rossini perché gli consente di utilizzare la sua trasgressiva creatività registica, dopo il “Ciro in Babilonia”, a Pesaro si getta a capofitto nei rimandi cinematografici, tuffandosi questa volta nell’immaginario felliniano.
Con il videodesign D-Wok, i bellissimi costumi di Gianluca Falaschi e le luci di Nicolas Bovey, il regista si inventa l’idea, poi non tanto balzana, di trasferire “Il Turco in Italia” in “8 ½”, capolavoro del regista riminese.
Ecco quindi che il poeta Prosdocimo (un ottimo Pietro Spagnoli) si trasforma in Marcello Mastroianni che, come in quel film, muove le fila di tutta la storia, dove per altro Fellini troneggia anche con riferimenti a “I clowns” e “Lo sceicco bianco”.
Il palco dunque si popola di personaggi felliniani, con la presenza anche della prosperosa icona del regista, la “Saraghina”, e delle altre donne del sogno matroneo del protagonista di “8 ½” che, con tanto di frusta in mano, tiene a bada tutte le sue innumerevoli conquiste (facendo anche capolino la Haudrey Hepburn di “Vacanze romane”).
In quest’atmosfera che sembrerebbe tradire lo spirito dell’opera, dobbiamo subito invece dire che tutta la storia del “Turco in Italia” pensata da Livermore ci sta a meraviglia; ogni personaggio è approfondito dal regista con grande acume, mai tralasciato dal senso di un’ironia sagace che attraversa il tutto, aiutato in modo perfetto da ogni interprete.
Partiamo dagli uomini: il già citato Pietro Spagnoli come Prosdocimo, sempre in parte sia nel canto sia nelle movenze, è accompagnato da Nicola Alaimo, davvero formidabile nella caratterizzazione di Geronio, abilissimo nei sillabati più vorticosi, ma anche disperato marito tradito e poi vendicativo.
Renè Barbera, come Narciso, è a tratti un po’ nasale ma bravo nella sua difficile aria “Tu seconda il mio disegno” in abito talare, ossessionato dai sensi di colpa, mentre Erwin Schrott si trasforma in un autoironico “Sceicco bianco” dal canto sempre perfetto e autorevole.
Per ultima Olga Peretyatko come Fiorilla, dalla voce un poco piccolina, in difficoltà nella sua ultima – per la verità difficile – aria, risulta nel complesso interprete e attrice pertinente.
Convincente la direzione piena di verve di Speranza Scappucci, alla guida dell’Orchestra Filarmonica Rossini e del Coro del Teatro della Fortuna, per un bellissimo “Turco in Italia” capace di rendere contemporanea un’opera ottocentesca, lasciandone intatta tutta la sua valenza musicale, con buona pace di chi crede che il melodramma debba essere sempre uguale a sé stesso.
IL TURCO IN ITALIA
Dramma buffo per musica di Felice Romani
Direttore Speranza Scappucci
Regia e Scene Davide Livermore
Videodesign D-WOK
Costumi Gianluca Falaschi
Progetto luci Nicolas Bovey
Interpreti: Selim Erwin Schrott, Fiorilla Olga Peretyatko, Geronio Nicola Alaimo, Narciso René Barbera, Prosdocimo Pietro Spagnoli, Zaida Cecilia Molinari, Albazar Pietro Adaini
Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini
Maestro del Coro Mirca Rosciani
Filarmonica Gioachino Rossini
Nuova coproduzione con Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia
Visto a Pesaro, Teatro Rossini, il 12 agosto 2016