Tutto il mondo può danzare. Il Vangelo di Sieni per la Biennale

L'incontro di Raffaella Giordano e Maria Muñoz (photo Andrea Macchia)|Saburo Teshigawara|Six years later di Roy Assaf
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Saburo Teshigawara
Saburo Teshigawara
Il numero sette è considerato fin dai tempi antichi il numero magico della perfezione, l’equilibrio perfetto, l’identificativo di un ciclo compiuto e vitale, il valore identico della monade, anima di ogni cosa.

Sette unità hanno composto la partitura di questa Biennale Danza 2014.
Aperto, Aura, Vita Nova, Invenzioni, Agorà, Prima Danza, Boschetto. “Anime mundi”, anime del Mondo Novo coreografato da Virgilio Sieni, con una cura per il dettaglio e dell’insieme, che ben si riflettono nei semplici ma minuziosi disegni fatti a mano che lo stesso direttore artistico ha tracciato e riportato nel catalogo del festival.

Sette monadi, centri di danza puntiformi, indipendenti e insieme rappresentativi di un universo articolato.
Universo visibile da fuori, dall’alto, come uno sguardo “aereo” che dal Campanile di San Marco si allarga a ventaglio su tutta la città lagunare, dato che il progetto triennale di Sieni sposa ed entra in forte interdipendenza con Venezia. Uno sguardo, in questo caso, che percepisce la geografia di un progetto, nella sua estensione e distribuzione, che entra ed esce di continuo dai confini territoriali, anagrafici, professionali, temporali, e dalle dinamiche che scaturiscono dalla relazione tra il gesto, come linguaggio fisico eternamente in movimento, con diversi gradi di coscienza e spiritualità, e il luogo che lo ospita, punto fisso in una città che lentamente scompare.

Visibile dal basso, da dentro, dove lo sguardo ha potuto seguire i percorsi tracciati dai “nizioleti” del festival, fare esperienza nei luoghi designati, soffermarsi vivacemente nei dettagli, riconoscere o disconoscere lo spostamento, la direzione, il respiro generati dal gesto del popolo multiculturale di danzatori, ospiti di questa edizione. Lo spettatore ha avuto quindi la possibilità di fluire ed esitare tra luoghi di lavoro e ospitalità, frequentare le articolazioni di questa struttura ossea, le stratificazioni di una ricerca continua che include il confronto con il pubblico nella mappatura coreutica.

Continuiamo quindi con qualche altra suggestione da questa Biennale.

“Lines” di Saburo Teshigawara. Linee aree danzate tra luce e ombra, che nascondono la rapidità del passo, l’appoggio del piede e slanciano con fasci di luci la vitalità delle braccia, il piegarsi del collo, la direzione della testa. Un flusso di movimenti che gioca anche con la contrapposizione dell’articolazione maschile, quella di Saburo, frammentata, nervosa, impulsiva, e quella femminile di Rihoko Sato, morbida, riflessiva, levigata.
Una prima assoluta al Teatro Malibran accompagnata in scena dal suono persistente e tormentato del violino di Sayaka Shoji, talmente denso e importante da fagocitare e far scivolare in un eccessivo lirismo l’idea coreografica di una linea di sospensione tra vita e morte.

Six years later di Roy Assaf
Six years later di Roy Assaf
“Six Years Later” di Roy Assaf. Il coreografo israeliano duetta con Hadar Yunger, due corpi che condividono un incontro, un tempo passato sconosciuto.
Un dialogo fisico dinamico, ravvicinato, mani che si muovono spedite verso il corpo dell’altro, sguardi vigili, attenti, sorridenti. Due corpi stretti l’uno all’altro attraverso un linguaggio di segni intimo, ora delicato ora audace, ora forte ora vulnerabile, di cui lo spettatore può intuire il valore semantico, rimanendo a osservarne le sfumature narrative. Un linguaggio visivo e silenzioso che cattura con la stessa meraviglia di quando ci si trova di fronte a un dialogo tra due sordimuti. In cui diventa strano ciò che è familiare e familiare ciò che è strano.

Ancora di amore tra un uomo e una donna si parla in “Sweat Baby Sweat” di Jan Martenes. Un amore, in questo caso, simbiotico, giocato sulla resistenza di corpi che sembrano incollati l’uno all’altro, quasi fossero, l’uno per l’altro, un chewing gum. Gomma da masticare dolce che non si vuole staccare e non si riesce a lasciar andare, perché appena la stacchi si appiccica subito da un’altra parte, e ogni tentativo diventa un gioco di azioni ripetute, un bacio che non finisce mai, una prova di resistenza bruciante e divorante allo stesso tempo.

L'incontro di Raffaella Giordano e Maria Muñoz (photo Andrea Macchia)
L’incontro di Raffaella Giordano e Maria Muñoz (photo: Andrea Macchia)
Di tutt’altro genere “L’incontro” di e tra Raffaella Giordano e Maria Muñoz.
Un duetto trasversale fra danza, teatro e poesia in uno spazio bianco, interno ed esterno, che come un quaderno di appunti aspetta di essere riempito, in questo caso dall’incontro di due poetiche diverse e dalla dinamica che ne dovrebbe scaturire.  
Uno spazio i cui perimetri possono essere sconfinati, il fondale mosso, l’interno svuotato, in cui le due artiste tentano accostamenti, sperimentano distanze, tempistiche, attese, spinte, cadute, sovraccaricando questo incontro a tal punto che diventa, per chi vi assiste, una prova di resistenza e faticosa sopportazione.

Poi ci sono i giovanissimi interpreti della “Stanza del Fauno” di Virgilio Sieni e di “Let’s play” del coreografo norvegese Stian Danielsen. Vita nova, questa la sezione che li accoglie e prova a immaginare come la fragrante esperienza dei piccoli danzatori (tutti tra i 10 e i 15 anni di età) possa diventare trasformativa attraverso l’elemento giocoso, di un sapere coreutico che ha già le sue radici in un terreno coltivato.
Delicatamente giocoso nel caso del quartetto di bimbe di Danielsen, che ha messo in luce la freschezza delle piccole interpreti, sia come corpo danzato che mantiene la sua “spontaneità”, sia come espressività del volto e dello sguardo ancora sbarazzino, leggero, imbronciato, dispettoso. Una delicatezza poetica restituita anche dalla voce delle danzatrici attraverso la gettonata canzone di Arisa (“Controvento”) o con l’antica filastrocca (“Ero in bottega tic tac”), che hanno in entrambi i casi regalato al pubblico una dolce epifania.

Non subito riconoscibile l’impronta poetica di Sieni, invece, nella “Stanza del fauno”, dove i due eccezionali giovani interpreti dimostrano fin da subito una padronanza del corpo, dello spazio e dello sguardo tale da lasciare poco gioco all’imperfezione. La stanza della divinità dei boschi, in questo caso, ha un’essenzialità geometrica che pur assorbendo quasi del tutto l’elemento giocoso si traduce in un’inedita versatilità d’interpretazione che i due giovani hanno saputo cogliere pienamente.

“Tutto il mondo può danzare” scrive Stefano Tomassini nella presentazione. Così è per questo festival aperto alla comunità, che ha bucato la classica temporalità di programma, con l’iniziativa delle Corderie a giugno e prolungato l’attesa della conclusione con il progetto speciale del “Vangelo secondo Matteo” che Virgilio Sieni, dopo aver attraversato l’Italia per trovare i suoi non danzatori, presenterà nella sua compiutezza nei prossimi tre weekend di luglio.
Il primo è iniziato ieri e prosegue fino a domenica. Ve li racconteremo.
 

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