Il melologo horror sci-fi di Roberto Scarpetti, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni in scena al Teatro India di Roma
“Gli uccelli” di Daphne Du Maurier nella traduzione italiana di Marina Vaggi per il Saggiatore è un racconto da una sera, non occupa più di quaranta pagine. Sono pagine la cui sconvolgente evocatività, la cui densità non sono dovute a quella particolare capacità di affondo via via sempre più slacciata dal quotidiano, sempre più svestita dell’abito della metafora che ha “La morte di Ivan Ilič” di Tolstoj, né a una qualche stringente catena narrativa, a un meccanismo inesorabilmente connesso con la nostra, di vita, come “Casa d’altri” di Silvio D’Arzo. Né i fatti sono affastellati stretti in una qualche rincorsa del finale – che, difatti, non esiste, o meglio, è quanto di più eloquentemente omissivo si possa immaginare: il protagonista getta un pacchetto vuoto di sigarette nel fuoco e lo guarda consumarsi.
È un racconto fatto d’azioni che ha alla lettura una sua peculiare leggerezza: c’è un solo personaggio in luce, il protagonista, di cui sappiamo qualche pensiero, qualche notizia della vita precedente. È stato soldato, Nat, e ha ora una pensione di invalido di guerra, condizione che gli consente di lavorare a orario ridotto in una fattoria come tuttofare.
Gli eventi accadono a Nat e a quelli che sono con lui con una rapidità inesorabile eppure tutt’altro che fulminea, nonostante l’eccezionalità dell’inspiegabile invasione di uccelli. È lui l’unico a resistere in modo pacatamente razionale, pragmatico, all’abbattersi dell’inspiegabile (perché è solamente lui a vedere i fatti davvero, anche la moglie non è che un impaccio alla loro comprensione), con azioni che puntano alla sola, strenua difesa, in un’evidente metafora della strategia inglese nella prima parte della seconda guerra mondiale. Ma egli non è un freddo stratega: una delle principali preoccupazioni nella sua azione difensiva, oltre a blindare con assi porte e finestre, procurarsi cibo a sufficienza per resistere all’assedio, è fare in modo che i suoi due figli non si impressionino troppo, cercare addirittura di volgere al gioco le contromisure necessarie a salvarsi dall’invasione.
Si tratta di una sciagura a cui il lettore deve chinare il capo, guardarla come un piaga divina oscura e inevitabile benché uno dei punti di forza del racconto sia la mancanza completa di un qualunque tono profetico.
Hitchcock, com’è noto, estrasse dal racconto poco più che l’argomento, quello della misteriosa “guerra” degli uccelli agli uomini (il termine è presente nella sceneggiatura di Evan Hunter), pur cassando ogni riferimento agli eventi storici inglesi: tutto il film è ambientato negli Stati Uniti. Quell’argomento è poi, dal regista inglese, introdotto da una geniale trama rosa, da commedia romantica, che è capace di spaesare completamente lo spettatore. Persino i personaggi sono diversi, sia nei nomi che nelle identità. Non c’è nessun combattente dell’ultima guerra, ma un rampante avvocato di San Francisco, Mitch, che passa i weekend con la sorella ancora bambina e la madre vedova, a cui lo lega, secondo l’interpretazione di Slavoj Žižek, una fitta trama di relazioni incestuose che l’attrazione da lui nutrita verso l’indipendente, intraprendente, sessualmente appetibile Melanie scatena in una forma distruttiva.
Il tentativo teatrale di Roberto Scarpetti, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, in scena all’India di Roma, ritorna al racconto originale, ne espunge alcuni passaggi (non sempre nitido risulta lo svolgersi delle ore e dei giorni) e, traducendolo in “melologo horror sci-fi” ai leggii, prova a dare risalto ad alcuni temi presenti nel testo originale, a darne insomma una rilettura dal di dentro, senza però la chiarezza militante di prendere, anche a costo di qualche forzatura, una strada interpretativa forte ed esclusiva (non quella sociologica, non quella puramente horror, non quella ecologica o politica o storica o psicoanalitica).
Il contesto dell’operazione è quello di IF/Invasioni dal Futuro, progetto della compagnia Lacasadargilla giunto alla fine del suo terzo triennio, che ha trovato dopo l’Auditorium di Mecenate e lo sparpagliamento in diversi spazi della città di Roma, la sua ultima sede nelle sale dell’India – mentre fuori nel bello spazio all’aperto infuriano gli aperitivi, sotto lo sguardo ormai arreso di P.P.P.
La prima macroscopica scelta del lavoro della compagnia romana è di carattere drammaturgico: Roberto Scarpetti riscrive in prima persona le sequenze riferite agli uccelli, e Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni le affidano a Fortunato Leccese, Camilla Semino Favro, Tania Garribba, posti vicini come in un sol nido sulla sinistra, vestiti ciascuno con espliciti richiami ornitologici: un completo bianco e nero l’uomo (una gazza?), un abito nero dai volants (un picchio, un corvo?) e uno marrone (un passero, uno scricciolo?) le donne.
Il gruppo “si muove come una macchina”, le alleanze tra diversi danno alle torme dei volatili una forza che gli uomini non sanno raggiungere, separati, incapaci di alleanze. Proprio con la forza del gruppo assume però qui ciò che in Du Maureier mancava, e rendeva ancor più impenetrabile la condotta dei feroci nemici dell’uomo: una voce intelligibile, che non dischiude le misteriose cause degli attacchi, ma ne avvicina la prospettiva, poiché siamo levati con loro in cielo, godiamo della loro stessa prospettiva sugli inermi obiettivi dei loro attacchi, li capiamo quando parlano (parlano!).
La seconda scelta è quella di inserire la lettura dei sei interpreti in un contesto sonoro e visivo pensato rispettivamente da Alessando Ferroni, Fabio Perciballi (anche alle chitarre e all’elettronica, sulla destra del palco) e da Maddalena Parise (video): sul fondo si proiettano screziature, pattern che si rivelano piume d’uccello o becchi, su cinque pannelli verticali, capaci di fornire un ambiente teatrale che esclude l’idea della scarna lettura scenica e rimanda allo sforzo verso un’opera di traduzione più globalmente teatrale.
La terza scelta, che batte come un chiodo, che è meno evidente e forse meno radicale di altre, nasconde però un mistero, un qualche dettaglio torturatore che chissà, forse è un’apertura. I due figli del Nat di Du Maurier (Johnny e Jill) e la sorellina del Mitch di Hitchcock si ritrovano fusi in un’unica “bambina” senza nome, figlia unica del protagonista, che gli attori citano sempre con un’intenzione, con un’inflessione evidentemente allusive.
Che sulla “bambina” si voglia far convergere la carica edipica del film o che simboleggi il silenzio di una nuova generazione vittima e priva di una qualunque voce in capitolo o qualcosa d’altro ancora non è chiaro. Di certo la sua stessa presenza (“la bambina”) continuamente affiora e poi a scompare nel testo di Scarpetti, come un personaggio che operi a tendere una qualche sinistra, celata alleanza con il nemico – non fu accusata anche di questo Cassandra, la sacerdotessa troiana di Apollo, evidente figura di Nat, cui nessuno veramente crede fino in fondo?
Gli uccelli
dal racconto di Daphne Du Maurier
adattamento Roberto Scarpetti
a cura di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
con Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Stefano Scialanga, Camilla Semino Favro
drammaturgia musicale Alessandro Ferroni, Fabio Perciballi
brani di Erik Satie
con Alessandro Ferroni elettronica Fabio Perciballi chitarra elettrica
disegno video Maddalena Parise
costumi Camilla Carè
luci Omar Scala
aiuto regia Caterina Dazzi, Flavio Murialdi
tecnico del suono Pasquale Citera
tecnico video Tiago Branchini
durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 2’ 30’’
Visto a Roma, Teatro India, il 4 agosto 2022