Esperienze e riflessioni nelle performance proposte da Giardino delle ore e Mumble Teatro, Giulio Stasi, Luca Pagan e Anna Basti
Anche quest’anno Umbria Factory Festival si configura come una breve stagione diffusa, tra Spoleto e Foligno, con una “preview” a Carrana (PG). Numerosi gli artisti chiamati a farvi parte, con una bella selezione di autori nazionali e un gruppo di “autoctoni”, tra cui Baglioni/Bellani con il loro ultimo “Play”, Impegnoso/Tonelli col primo studio di un “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” e gli amerini Operabianco, che vi portano un workshop di comunità per la lavorazione di un nuovo capitolo spoletino del loro “Playground”.
La nostra visita è stata breve, insufficiente per assaggiare in prima persona la risposta del territorio e il rapporto tra scelte di generi così distanti (bilanciati però da una riflettuta collocazione all’interno delle giornate, solitamente spartite in tre momenti di proposte diverse per dimensione e linguaggio); non però per apprezzare, nel corso di una giornata di spettacoli e laboratori, la qualità delle scelte.
Apre la giornata l’ormai collaudato ma sempre nuovo “Le classique c’est chic” di Anna Basti, la lezione di danza classica aperta a tutti e tutte, che sceglie per l’occasione la “sbarra” del parapetto che chiude la problematica piazza Matteotti di Foligno per una avventurosa prova di inclusione. Seguono due brevi performance, la prima è “Un caffè sospeso” di Giulio Stasi nel suo furgone camperizzato, un'(auto?)biografia del paesaggio interiore e circostante, reale e immaginario di appena una decina di minuti.
Poi, nell’affascinante spazio slavato, sbiancato, offeso da una perdurante eco dell’ex auditorium di Santa Sofia, la performance “Multi node shell” di Luca Pagan, alla quale lo stesso artista e programmatore veneziano ha preparato un gruppo di interessati spettatori nel workshop precedente l’esibizione.
Immerso in una luce rossa, indossato un esoscheletro minuziosamente adeso al corpo, il performer ne aziona i sensori col contatto della pelle tesa dai muscoli coinvolti nei movimenti e nelle interazioni. Essi inviano a un software di IA impulsi alla cui geografia è stata, nella maggior parte dei casi, associata una traduzione sonora, musicale; ad altre combinazioni provvederà l’applicazione ad attribuirne una, attraverso la propria autonoma ricerca “creativa”.
Il risultato, dice Pagan, è un doppio processo di insegnamento/apprendimento: il primo, quello iniziale, è diretto dall’uomo verso la macchina; il secondo, quello che mostra al performer una possibilità sonora nuova, eventualmente replicabile volontariamente, è risultato del lavoro del software e procede da questo verso l’uomo.
Più tradizionale, nel linguaggio e negli strumenti rappresentativi, la serata, che si chiude con due concerti, Eric Chenaux prima, Rob Mazurek / Gabriele Mitelli poi, ma si apre con uno spiazzante lavoro di Il giardino delle ore e Mumble Teatro, tratto da “Quasi una serata. Tre Atti Unici di Ethan Coen”.
I tre brevi lavori sono costruiti su trovate, e sono tre flash di teatro dell’assurdo in stile americano, cioè in cui l’assurdo è arguzia più che sprofondamento, logorrea più che afasia e stordimento più che alienazione. Nel primo si immagina una vita oltremondana con i suoi tre regni, inferno, purgatorio e paradiso, organizzati come un budello burocratico kafkiano; nel secondo la comica redenzione di un agente segreto, segnata dal destino della circolarità e dalla pericolosa frequentazione delle saune pubbliche; nel terzo un dibattito tra il dio biblico inflessibile e vendicatore e la sua più tenera versione odierna, comprensiva e new age, affidate poi al voto del pubblico.
Si tratta di tre messe in scena che non nascondono i propri limiti: i cambi luce sporchi, un piazzato che sfora su fondale e quinte, la banalità di alcune scelte registiche, come quella sorta di jingle a coprire i rapidi cambi-scena, una certa tendenza alla stereotipia della recitazione, scenografia ora approssimativa e ingenua, ora segnata da impennate di registro nell’esibizione di allusivi e ingombranti animali impagliati, in quell’ipercorrettismo simbolista ed estetizzante tipico delle messinscene amatoriali.
Ma contraddicendo le attese, è il “da” che troviamo in locandina al posto del “di” a giocare la differenza davanti al titolo. Se infatti il testo del noto autore e regista è ciò che, sulla carta, fa gola allo spettatore, è l’irrefrenabile, intelligente fastello di piani rappresentativi metateatrali opera della scrittura della “cornice” costruita attorno alla quasi-serata dal quartetto di attori-autori che appassiona. In un gustoso scivolamento sulla coda del lavoro, uno degli attori riprende infatti il proprio vero nome e si trova a cena in un ristorante con la compagna, ed è lo stesso ristorante in cui uno spettatore dai palato facile ha la sventura di trovarsi con la sua snobissima accompagnatrice, che spara a zero sulla commedia appena vista. Ciò che risulta elettrizzante è soprattutto che le critiche della spettatrice corrispondono con una certa precisione a quelle che potremmo avanzare e in alcuni casi abbiamo avanzato noi, siglando insieme un punto di autoconsapevolezza (e di agio nell’operare fuori misura, nel giocare sporco) e un notevole livello di autoironia.
Anche la melensia simpatia con la quale, prima dell’inizio della serata, i quattro interpreti si aggiravano in platea per fare amabile conversazione con gli spettatori, in una profusione francamente odiosa di sorrisi e insipidi conversari, si dimostra una finzione, si ribalta in una consapevole presa di coscienza della vuotezza di quegli scambi; e infine, al massimo grado, la stessa qualità della resa attoriale nel “pezzo forte” della serata, il monologo del dio feroce, è messa di fronte all’abisso della propria trascurabilità, con la consegna del monologo nel finale – questo sì, meravigliosamente confezionato – a una spettatrice qualsiasi, che si ritrova a compitarlo al microfono, mentre le luci compongono i quattro piombi demoniaci sulle quattro figure dei protagonisti, finalmente tutti in scena.
Un piacere totalmente intellettuale, in cui a uno smascheramento ne segue un secondo, poi un terzo, lasciando infine nell’ambiguità lo spettatore su quale sia la qualità vera di questo lavoro, che nel dubbio non può che essere l’apoteosi dell’arguzia e del relativismo, dove nulla sopravvive alla critica e all’autocritica. Nessun’altra complicità autentica è in fondo richiesta né concessa al pubblico, non quella della quarta parete, men che meno quella della sua demolizione.
Più stridente non potrebbe essere il contrasto con la breve performance di Stasi che apriva il pomeriggio. Se quella del Giardino delle ore/Mumble Teatro era un inno all’intelligenza calcolatrice, quella di Giulio Stasi è una prova empirica dell’esistenza del corpo, del suo tirannico potere di catalizzazione percettiva. Ci si chiedeva semplicemente di fare ingresso in un furgone marrone: in quest’atto, banalmente e puramente fisico, si può dire si concluda l’intera esperienza.
Nel furgone, parcheggiato sotto il sole, la temperatura è certamente superiore ai trenta gradi, l’umidità quasi insopportabile, l’ossigeno pare scarso. In un lettuccio, davanti ai tre spettatori convocati per ogni replica, seduti in punta di una panchetta di truciolato duro, sotto un lenzuolo sta il corpo di Stasi, nascosto. Di lì a poco, con l’ingresso di una piccola luce, rivelerà la sua presenza e farà alcune azioni quotidiane (una doccia, si vestirà, metterà sul fornello una caffettiera, si posizionerà al volante, ma senza avviare il motore, consentendo alla luce del parabrezza di entrare nell’abitacolo). Nel frattempo una voce registrata ripercorre alcuni frammenti della storia del personaggio, uno sradicato che sceglie il mondo come casa. Ma le parole, le azioni persino perdono la loro capacità di imprimersi nello spettatore, perché è il suo corpo stesso, a un così stretto contatto con quello del performer, è chiamato a ricevere l’esperienza. La temperatura, l’umidità, gli odori che si sprigionano dalle azioni, dai corpi, dagli oggetti rendono impossibile prendere le distanze dal proprio stato di corpo in difficoltà: esso, nelle sue facoltà involontarie di percezione, tiranneggia l’esperienza.
Raramente è capitato di scontrarsi in modo così incontrovertibile con questa realtà organica dell’essere spettatore prima di tutto come corpo vivo; finché l’odore del caffè fa la sua comparsa, un refolo d’aria attraversa l’interno del camper, ora illuminato dalla luce del sole che passa attraverso un abbaino; lo sguardo sinora inespressivo di Stasi si incontra col nostro, accompagnandosi con un sorriso, e tre tazzine ci compaiono davanti, profumate di qualcosa di noto, finalmente invitanti.