La “convenzionalità” a teatro ci parla? Anzi, ci parla ancora? E di cosa?
E poi, cos’è la convenzionalità a teatro? Il termine ha una sua tradizione nel ‘900. È la traduzione di un contenuto in una forma visibile e oggettiva come un gesto, un suono, un colore. Questo gesto, suono o colore mantiene – con il contenuto che traduce – un legame che spesso non è più immediato, ma che rimane oscuro. Ha a che fare coll’espressione “gergo tecnico”, ma si tratta di qualcosa di estremamente più ampio. Ciò che lo distanzia dal suo referente non è più ricostruibile con una semplice affinità formale, ed è qualcosa che possiamo chiamare: cultura.
Il nostro passato teatrale è pieno di dizionari per lo studio attivo di tali traduzioni, cioè per le accademie di teatro – il pubblico non ne aveva bisogno, doveva conoscere bene quel vocabolario. Da consultare, oggi, per esempio sull’ampio Prontuario di pose sceniche di Alamanno Morelli, metà dell’800 (alla voce “amore”, si comincia a leggere: “capo pendente alquanto dal lato del cuore; bocca socchiusa composta a dolce sorriso…”).
La nostra storia dell’ultimo secolo e mezzo ha cercato in ogni modo di scrostare e spogliarsi di quella convenzionalità, a onta dei valorosi Mejerhold e Brecht, e persino dei vari epigoni-continuatori della nobile tradizione della Commedia dell’arte, forse perché accanto all’equazione fra questo patrimonio e una comoda approssimazione, paccottiglia, si è rafforzata l’idea che l’immedesimazione, considerata l’unica strada verso la commozione, potesse avverarsi solo tramite il realismo. “Sembra che pianga davvero”.
Ora, cosa accade se una coproduzione di Emilia Romagna Teatro e Opera Nazionale Cinese di Pechino affida a una regista tedesca, Anna Peschke, assistente di Heiner Goebbels, una messinscena del “Faust” goethiano riscritta da un’autrice specializzata di opera tradizionale cinese, le cui musiche siano state composte a “sei mani”, da due italiani e un cinese? Si è osato troppo?
La convenzionalità di un genere come l’opera di Pechino, implacabile e spesso scollata da un immediato referente reale verrà messa in crisi, cozzerà con le necessità del teatro contemporaneo, che se non ha più quasi alcun rapporto con il realismo, certo ha una convenzionalità tutta propria?
No. La messinscena, rappresentata per la prima volta all’Arena del Sole di Bologna nel 2015 e ora in tournée italiana (noi l’abbiamo vista a Roma), ha la forza della debolezza e della volontaria sottomissione al linguaggio mediato del Jingjiu, la famosa arte performativa che combina canto e recitazione, ma anche danza, arti acrobatiche e marziali. E ci permette, se non altro, una scoperta: essa non è afasica a un occidentale. Trasmette, in mezzo al facile e forse generico fascino dell’esotico, dolore, sconforto e disperazione.
La danza muta di corteggiamento di Faust, il tentennamento di Margherita di fronte al dono della collana incantata, l’arioso di quest’ultima mentre affoga senza saperlo, o pazza, il bimbo, l’ultimo allucinato monologo di Faust di fronte alle proprie responsabilità ignorate e al proprio fallimento, questi e altri momenti apicali del lavoro si insinuano nella pelle del pubblico, già provata dalle sonorità sbigottite degli strumenti tradizionali.
Ogni gesto, in un teatro che rifugge quasi totalmente persino le scenografie e che tutto concentra nel ruolo dell’attore e del musicista (nessuno stupore se all’inizio del secolo scorso le teorie in favore di un teatro “istriocentrico” abbiano rivolto lo sguardo a Oriente), ogni movimento e ogni sfumatura anche vocale andrebbero goduti nell’ampio spettro di allusioni a cui si riferisce, decriptandoli con un Alamanni cinese. Ma ciò richiederebbe uno studio specialistico, che noi non abbiamo. Eppure quanto lo spettatore comprende basta a dimostrare questo: che anche attraverso lo spesso strato della convenzionalità (o grazie ad esso) il sentimento emerge, si palesa e si trasmette.
Una domanda, però, rimane.
Perché Faust? Cosa aggiunge o dispiega uno spettacolo che sulla forma si mantiene in piedi l’affrontare di un testo così capitale, così sfumato e ramificato?
Attraverso quella rete di significanti cosa emerge se si parla, oltre che di sentimenti ed emozioni, di pensiero, di filosofia?
Meglio ancora: è possibile riportare non solo il capitale storico-culturale, ma anche quello filosofico di un’opera tanto centrale dell’Occidente, farlo rivivere in un linguaggio fatto per lo più di gesti, atmosfere e suoni, di allusioni sentimentali più che filosofiche? Forse; ma questa messinscena non c’è pienamente riuscita.
La “convenzionalità” a teatro ci parla? Anzi, ci parla ancora? Sì, ma dei larghi viali dei sensi, delle assolate piazze delle emozioni degli uomini; non dei cunicoli del loro pensiero.
Faust: prima parte
di Johann Wolfgang Goethe
progetto e regia Anna Peschke
con Liu Dake, Xu Mengke, Zhao Huihui, Zhang Jiachun
musicisti Vincenzo Core, Wang Jihui, Niu LuLu, Laura Mancini, Giacomo Piermatti, Wang Xi
consulente artistico Xu Mengke
musiche originali Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani, Chen Xiaoman
scene Anna Peschke
luci Tommaso Checcucci
costumi Akuan
materiali scenici Li Jiyong
coreografie Zhou Liya, Han Zhen
produzione Emilia Romagna Teatro, Fondazione / China National Peking Opera Company
durata 1h 30′
applausi del pubblico: 3′
spettacolo in lingua cinese con sovratitoli in italiano
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 10 marzo 2017