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Un pubblico estasiato dal Barroco di Pandur

Pandur-Barok

 

Pandur-Barok
Barroco (photo: Javier Naval – pandurtheaters.com)
Allestito dentro il bel quadrilatero del Complesso Križanke, uno dei tanti angoli della dolce ed europea Ljubljana, Barok (Barroco il titolo originale spagnolo) è un’opera di Darko Lukic e del regista Tomaz Pandur basata sul romanzo epistolare Les Liaisons dangereuses di Choderlos de Lacios (si ricorderà la celebre trasposizione cinematografica del 1988, a cura di Stephen Frears, con John Malkovich, Michelle Pfeiffer, Uma Thurman e Keanu Reeves) e Quartett, opera di vera e propria rifondazione drammatica del romanzo epistolare da parte dello scrittore tedesco Heiner Müller.

L’ora d’inizio dello spettacolo non può certo essere un momento assolutamente inderogabile – come non lo è, quasi mai, per nessuna rappresentazione, costretta com’è a convivere, almeno per i primi minuti, con i fisiologici tempi d’ingresso del proprio pubblico. Eppure si conferma come il puntiforme inizio della vita di quella realtà teatrale e così, davanti al lento e disordinato comporsi della platea, sulla traccia di un azzeccato continuum sonoro, quasi a narrare la loro ancora enigmatica gestualità, si assiste alla graduale (e drammatica) conquista del palcoscenico da parte dei due principali protagonisti.

La storia si muove lungo le vicende del Visconte de Valmont (Asier Etxeandia) e della Marchesa de Merteuil (Blanca Portillo), due personaggi storici senza futuro, persi in una terra di nessuno come fantasmi condannati a ripetere la propria storia e il proprio passato.
Se da Blanca Portillo non ci si può che aspettare una “gran actuaciòn” (dal 1985 una carriera teatrale in crescendo, mentre al cinema il suo culmine è stata la Palma d’Oro come interprete femminile di Volver, di Pedro Almodóvar), anche le interpretazioni del giovane Asier Etxeandia e di Chema León appaiono di grande apporto per la costruzione di questo poderoso e moderno quadro espressionista, abbracciato, chiuso nella scenografia dello studio Numen che, non di rado, rimanda alle pareti mobili del Wall dei Pink Floyd. Questa scarna ma semovente scenografia, insieme alla semplicità delle coreografie del bravo Nacho Duato, fanno quasi da contrappunto alla poderosa melodia barocca del gruppo Silence, frammista a cenni di musica contemporanea. Forse inevitabile – o addirittura necessaria – la schietta luce bianca ad acuire l’ipnotico effetto ‘cinemascope’ dello scenario, tutto teso ad abbracciare e incorniciare (senza mai soffocarla) l’azione romantica dei personaggi.

Che ci si trovi di fronte a qualcosa che non lascia spazio ad atteggiamenti di indifferenza o neutralità, lo si intuisce sin dall’inizio: dai quei primi inequivocabili indizi di un allestimento pensato dal regista sulla base di una sua matura consapevolezza della differenza fra la letterarietà dell’oggetto  “teatrale” e la sua concreta fisicità, come vero e proprio luogo a sé, in sé. Ogni cosa in Barok è pensata per essere vissuta, non solo vista ed ascoltata, né tanto meno interpretata.
Ad onor di cronaca bisogna anche dire che, alla sua prima uscita in Spagna, alcuni critici hanno sì premiato l’espressività di Barroco, lamentandone però, al tempo stesso, la carenza di carattere drammaturgico. Tuttavia un tale giudizio potrebbe forse essere figlio di tanta accademica diffidenza verso tutto ciò che non si radichi completamente nella tradizione, ma voglia invece, in maniera assai più semplice, grattarne la superficie in una personale presa di coscienza di un diverso modo di vivere lo stesso identico tragico destino.
Barok non si chiude affatto nella propria teatralità, né ci porta fittiziamente dietro le quinte per spiegarci la verità o la stessa impossibilità di raggiungerla. Barroco ci racconta ‘live’ la storia di una ricerca, e sembra dirci che il teatro è esso stesso storia che, come afferma Barroco-El Navegante (interpretato da Chema León) “nunca es lo que se cuenta, es lo que se oculta” (‘non è mai ciò che racconta, ma ciò che nasconde’) e “habla. O escucha”, mai le due cose insieme.
Proprio in questo senso pare che lo stesso pubblico dia ragione di un tale esperimento, se è vero che poche volte ho visto una platea talmente assorta – voyeuristicamente assorta –  nell’accogliere ciò che viene dal palco.

Barok si pone il problema dell’unico oggetto davvero peculiare del teatro, quello della ‘dichiarata’ ed esplicita rappresentazione. E di fronte a questo problema i personaggi sul palco finiscono per trovarsi ora rivolti al pubblico ora, con questi ultimi, verso se stessi; ma alternamente (mai le due cose insieme). Fino, al termine della rappresentazione, a far dichiarare al disperato e disperante Valmont: “Yo mismo soy el màs fiel espectator de mí mismo” (“sono proprio io lo spettatore più fedele di me stesso”).

BAROK (Barroco)
di Darko Lukic e Tomaz Pandur
regia: Tomaz Pandur
coreografia: Nacho Duato
scenografia: studio Numen
musiche originali: Silence
con: Blanca Portillo, Asier Etxeandía, Chema León
durata: 1 h 55’
applausi del pubblico: 12’

Visto a Ljubljana, Križanke, il 2 settembre 2008

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