Ci si interroga spesso sul ruolo della critica in relazione al contesto del teatro e a quello, più ampio, della società. Calma: non è quello che stiamo per fare.
Provando invece a parzializzare, ad addomesticare il discorso del rapporto tra racconto critico e pubblico – nello specifico un pubblico che non ha ancora visto lo spettacolo –, si pone una domanda.
Nel caso di un lavoro “a chiave”, cioè di un lavoro che pur non consistendovi interamente, si impernia su un dato che viene alla luce nel corso del testo e che illumina il finale e, retrospettivamente, tutto ciò che è accaduto fino a quel momento, può il critico sacrificare ai propri scopi interpretativi l’effetto della scoperta di quel dato, disinnescarlo in un semplice racconto, solo per licenziare la questione del racconto della trama nella sua interezza?
Credo di no, per questo la chiave di “Una cosa enorme” di Fabiana Iacozzilli, in scena al Vascello per Romaeuropa Festival dopo l’esordio alla Biennale Teatro 2020, sarà ostinatamente tenuta celata nelle righe che seguono, anche a costo di qualche oscurità.
Una donna è in scena (Marta Meneghetti), abita una casa stilizzata, ridotta a una vecchia poltrona di pelle, un frigorifero arrugginito, una cucina a gas. Sulla destra una pianta da appartamento si è seccata. Armata di fucile, la donna spara a stormi di cicogne che l’assediano. Ha un ventre spropositato, che quasi tocca terra, e contiene un figlio che non vuole lasciar nascere, lo tiene dentro a costo di terribili sofferenze, cucendosi con una robusta corda. Alla rottura delle acque, sopravvenuta in un momento di distrazione e segno inequivocabile che i tempi non sono ormai più rimandabili, nemmeno allora si dà per vinta, anzi si àncora disperatamente a una sorta di albero maestro, cui annoda quella corda che la tiene serrata.
Nella seconda scena il parto nonostante tutto è avvenuto, e la madre, nella stessa casa di prima, si trova alle prese con l’accudimento di un nato già grande (Roberto Montosi), proporzionato a quell’enorme ventre, a quell’attesa protratta fino a una folle ostinazione. Pronto a esplorare il nuovo mondo fuori, il piccolo gigante si arrampica su un seggiolone titanico e rovescia dappertutto la colazione preparata dalla madre, esige di far da sé ma combina disastri. Lei, schiava di un accudimento soverchiante, cede al pianto noto a ogni puerpera: quel pianto, umile, vero, è l’unico dato non fuori scala, in questa gigantografia dei legami del corpo e del dovere. Così si accende una sigaretta – e qui giunge la chiave di cui si diceva, d’innanzi alla quale questo racconto si arresta.
“Una cosa enorme” è agganciato a una complicata geografia di punti, un reticolato di volontari ‘evitamenti’ e scelte sceniche e di scrittura tanto chiare e solide.
Primo, l’uso degli oggetti. Come in “La classe” il carico emotivo dell’argomento era delegato e trasfuso nella materialità di cose che si muovevano sulla scena – i pupazzi con i loro suoni e i loro commoventi oggettini in miniatura –, qui sono il ventre della gravida e le suppellettili che arredano la tavola, su cui si prepara una colazione e si opera l’accudimento del figlio, a caricarsi di un portato significante tale da renderli quasi metonimie di presenze, di cadute, di sfregamenti e di altri dolori più grandi – e perciò muti.
La materialità di questi oggetti “pesanti”, poi, è a sua volta mediata attraverso il canale uditivo nell’inquietante disegno sonoro di quello stesso Hubert Westkemper premio Ubu, appunto, per il progetto audio di “La classe”.
Esso ha il proprio centro nel grande tavolone “microfonato”, capace di intercettare il fruscio di un cartone, di far cantare il crocchio di un biscotto o il crepitio di una manciata di fiocchi di cereali, pur non rinunciando a una spazialità aperta a ogni evento esterno, come gli uccelli che circondano con i loro minacciosi strilli l’intera platea.
Altro punto di quel reticolato, di quella geografia di punti, è nel nitore della struttura: chiarissimo, precisissimo, il testo è ordinato in un forma quasi sillogistica, che ha proprio in quella chiave di cui si parlava in apertura un elemento di culmine strutturale e di snodo concettuale. Una chiave che è insieme epifania e scossa, paragonabile allo svelamento delle signore/serve nel capolavoro genettiano – il sobbalzo è lo stesso, e chiunque vedrà lo spettacolo non faticherà a riconoscere ciò di cui si sta parlando.
Questa struttura severamente sillogistica conduce diretta al terzo punto della geografia di “Una cosa enorme”, un elemento per così dire climatico: la freddezza. E non si intende una mancanza di presa intima, un rigetto di partecipazione, né da parte del pubblico, come si è visto, né da quella dell’autrice. A scanso di equivoci, Iacozzilli infatti mette in chiaro una cosa: il lavoro parte dal suo stato, dal suo tormento personale. Un sostrato autobiografico non solo dichiarato dall’autrice in una sorta di interludio registrato tra la prima e seconda scena, ma che non può sfuggire a chi riconosca questo testo come nato da una costola di “La classe”, dove qualcosa, come «un baffo nero» della terribile suor Lidia, doveva essersi installato nel ventre dell’autrice per avvelenarvi e scuotervi il tema della maternità.
Il sostrato autobiografico non è però materia del lavoro: ne è l’innesco. Il processo scenico avanza per forze altre e diverse, forze di ragionamento, di analisi, di coraggiosi esperimenti concettuali portati avanti sui corpi dei mirabili interpreti con la chiarezza espositiva di un tavolo di lavoro anatomico. Spietata operazione di lucidità, che non consente, nemmeno nei momenti in cui la carne sembra urgere e gridare, di instradare il tono verso una condivisione sentimentale, verso la commozione: il tema (volutamente al singolare, che potremmo intercettare nella vita come suo rivoltarsi su sé stessa, colta di sorpresa da miraggi e colpi d’accetta) è posto con gli strumenti linguistici di un inesorabile ma mai aprioristico procedere da trattato di filosofia morale.
Questi i paletti a cui è assicurato il testo, e paiono quelli a cui si sospendevano le pelli conciate al sole per farle seccare, a dieci centimetri da terra. Vanno dal rifiuto del sentimento, al ricorso, in una dimensione tutta sensistica, all’icasticità degli oggetti e dei rumori da essi prodotti, e giungono all’organizzazione del materiale come dimostrazione (e scoperta) di un «crudo vero», per il quale l’autrice predispone il vetrino su cui osserverà, non senza gravità, il disporsi del risultato.
Possiamo aggiungerne diversi altri, di quei paletti o punti: l’assenza di un “copione” tradizionale (le parole pronunciate non saranno più di una decina) e al contempo il rifiuto di una dimensione squisitamente installativa; la voluta lontananza da un panorama sociologico o ingenuamente psicologistico, nel quale si sarebbe potuto agilmente inquadrare il tema “maternità innaturale” o “accudimento”; il ricorso a un registro grottesco programmaticamente lontano da ogni compiacimento.
Tutto ciò contribuisce a delimitare, per “Una cosa enorme”, un campo d’azione che va progressivamente stirandosi e assottigliandosi, fino ad assumere la forma di un affilatissimo spiraglio, una spaccatura aperta sul palco, che proprio allora si carica di un’intensità incandescente, davvero insostenibile.
In quello spiraglio, che non è narrazione né rappresentazione né autobiografia né sociologia – tenuto aperto da una scrittura scenica dal gesto matura, addirittura geniale, che inesorabilmente dalla sua posizione soprelevata ci scroscia addosso –, qui, compressa e accecante, sta la disperata tesi di “Una cosa enorme”, la sferzata massimalista, nichilista al pari di quell’ultimo perentorio cambio luci, che ci mostrerà la madre come dimenticata in scena. Una tesi che, chissà, forse va persino oltre le intenzioni dell’autrice, ma che alle orecchie di chi scrive riecheggia la chiusa del leopardiano “Canto notturno”: «forse in qual forma, in quale /stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale».
Una cosa enorme
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli
con Marta Meneghetti, Roberto Montosi
scene Fiammetta Mandich
luci Luigi Biondi, Francesca Zerilli
suono Hubert Westkemper
realizzazione body suit Makinarium (special – visual – effects)
collaborazione ai costumi Davide Zanotti, Anna Coluccia
aiuto regia Francesco Meloni
assistente alla regia Cesare Santiago Del Beato
assistente alla drammaturgia Carola Fasana
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
foto di scena Manuela Giusto
foto locandina Paolo Cenciarelli
collaborazione artistica Lorenzo Letizia, Luca Lotano, Ramona Nardò
un ringraziamento a Giorgio Testa
un ringraziamento speciale a Beatrice Fedi, Olga Galieri, Paola Sambo, Luana Provenziani, Gaia Clotilde Chernetich, Gianmarco Vettori, le donne del progetto Dentro la visione, gli artisti che hanno partecipato al laboratorio Labirion, le donne e gli uomini che abbiamo intervistato.
foto: Paolo Cenciarelli
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Sipario Toscana-Centro di Produzione teatrale, Carrozzerie | n.o.t
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Lazio – Direzione Regionale Cultura e Politiche Giovanili – Area Spettacolo dal Vivo
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo, Periferie Artistiche Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio, ATCL Circuito multidisciplinare della Regione Lazio per Spazio Rossellini
con il supporto di Nuovo Cinema Palazzo, Labirion Officine Trasversali
In corealizzazione con La Fabbrica dell’Attore / Teatro Vascello
durata: 50′
applausi del pubblico: 3′
Visto a Roma, Teatro Vascello, il 18 novembre 2021