I want to be the one to walk in the sun.
Cindy Lauper cinguetta il suo inno all’effervescenza femminile non appena le luci calano, ed ecco il letto d’ospedale, due sedie, un tavolo, la radiolina scassata.
Ma quale sole? Quella caligine di raggi spettrali che s’intravede dalle imposte della stanza, o forse quello luminescente e ricco di promesse di una nuova rinascita? Non si sa verso cosa camminerà Deborah, la ricoverata al centro della scena, una volta che uscirà dalla clinica, ma è certamente lontano – oltre le pareti «così strette, così strette» che le si buttano addosso, oltre «l’immenso androne di specchi col rumore di un rubinetto che sgocciola».
Deborah (Sara Bertelà) è la protagonista dell’atto unico di Harold Pinter “A Kind of Alaska” (nuova produzione Teatro Piemonte Europa e Stabile di Torino), ed è stata vittima di una grande beffa: un sonno non voluto, indotto da un’encefalite letargica che l’ha assopita per 29 anni. Deborah si è addormentata adolescente e si è risvegliata donna. È sempre stata viva, ed è viva adesso.
Quanti compleanni sono passati in silenzio? Non c’è nessuna festa quando Deborah si tira faticosamente su dalle lenzuola – troppe sarebbero le età da recuperare. Nessun nuovo brivido erotico, nessuna briga familiare da risolvere con risate o note di biasimo. C’è solo un lutto lungo quasi trent’anni, la cura a base di L-Dopa del medico Hornby (Nicola Pannelli), la sorella Pauline (Orietta Notari) che nel frattempo si è affannata, consumata, inflaccidita nell’assistere la disgraziata creatura annegata in una glaciale non vita.
Deborah è stata defraudata della propria esistenza, gettata tra le braccia di un crudele Morfeo che ha manipolato e compresso il suo tempo vitale.
Scrive bene Valerio Binasco, regista della pièce, nelle sue note: «C’è il ticchettio di un orologio che scandisce la recitazione e la vita. È il tempo. Il tempo in “A Kind of Alaska” è un baro. Ha truffato tutti. Oppure tutti noi siamo bari col tempo, e lo truffiamo».
Il punto di partenza di questo scarno eppure artigianalmente impeccabile testo teatrale è “Awakenings” (Risvegli) dello scienziato Oliver Sacks, per il quale, com’è noto, il fenomeno neurologico conduce al cuore delle pieghe emozionali e conoscitive dell’umano.
Pinter illumina le potenzialità narrative e, si potrebbe dire, filosofiche della patologia e ne fa teatro: il medico di “Una specie di Alaska” è effettivamente spectrum di Sacks medesimo (come a dire: nel mio dramma non puoi mancare tu, che hai stimolato e verificato questo ritorno alla vita). Dopodiché, tutto è al cospetto della parola: l’azione, lo spazio, il dolore, l’identità perduta e da dover rintracciare.
Binasco legge, ascolta Pinter e si propone come brillante editore dei suoi attori, facendo loro vivificare al massimo l’asciutta (quasi anemica) retorica pinteriana e lasciandoli liberi di accamparsi nei territori del dolore con le loro voci e i loro sguardi. Binasco media tra parola drammaturgica e manovra attoriale e vince la scommessa.
Bertelà splende di luce propria (e seduce anche nel candido camice del suo male); pende nel vuoto pur sentendo vividissimamente il verbo di Pinter, che con tutto il suo peso crea il dialogo con Pannelli e Notari, perfetti nell’accompagnare e girare intorno a questa resurrezione. D’altra parte Pauline e Hornby hanno vissuto per Deborah, e la sintonia tra gli attori corrobora la pur penosa intesa. La specie di Alaska di Binasco è anche una storia d’amore, e non solo uno scivolo verso la disperazione.
Tutti i personaggi hanno vissuto nel non luogo della letargia, ma annota il regista «gli occhi ancora bambini di Deborah si posano sul viso della sorella con lo stesso orrore con cui si poseranno su uno specchio. Alla sorella e al dottor Hornby non rimane che lasciarsi guardare da quegli occhi, come se non potessero far altro che offrire a Deborah un’inconscia vergogna per il loro essere vissuti in uno stato di veglia che è appena appena più cosciente del suo. Offrono le loro vite sprecate. Come quelle di tutti. Chi più chi meno. Ma lei, in tutto quello spreco, è giustificata in quanto assente. Loro ingiustificati in quanto presenti».
È così che, nel giro di appena 80 minuti, l’allucinante terrore del tempo perduto si addensa sul palco e si rivolge proprio a noi, reduci dalla chiusura alla vita post-lockdown (quando Hornby ricorda a Pauline di tirare su la mascherina il riferimento al Covid-19 è lampante).
Cos’ha significato per noi riaprire le porte delle case e della vita? Com’è stato, quando è sembrato impossibile dissociare la realtà da un incubo febbrile? Dov’è la salvezza, quando ci si accorge che l’esistenza sta correndo via e gran parte di essa sembra essersi già stinta?
Deborah teme di aver commesso un reato e si convince di essere in prigione per questo. Sappiamo non essere così: e allora perché, a fine spettacolo, ci si allontana con la scura sensazione di dover incontrare presto anche noi una sentenza tanto terribile?
Una specie di Alaska
Di: Harold Pinter
da Risvegli di Oliver Sacks
Regia: Valerio Binasco
Produzione: Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile di Torino
durata: 1h 20′
Visto a Torino, Teatro Carignano, il 15 luglio 2020
Prima nazionale