Uomini e topi, coppia singolare e curiosa associazione: un connubio ricorrente all’ultima Biennale Teatro di Venezia, e in perfetto abbinamento, se si vuole, a una città che ha i suoi canali di comunicazione proprio allo stesso livello delle vie di scarico.
“Of Mice and Men” è anche il noto romanzo di John Steinbeck, il cui titolo a sua volta deriva da una poesia dello scozzese Robert Burns, in cui l’autore accomuna uomini e topi in quanto entrambi architetti di piani che spesso, invece della gioia sperata, si risolvono in null’altro che dolore e sofferenza: se “l’onestà animale” porta inevitabilmente a subire l’esistenza, imprevedibile e più forte, dall’altra parte, a far conoscere agli uomini il dolore è proprio la loro stessa intelligenza.
Vista così, la vita è una favola ossessiva e torbida, proprio come quella ambientata e ricreata in “El policía de las ratas”, testo del cileno Roberto Bolaño che nella versione drammaturgica e scenica firmata da Àlex Rigola ha aperto la Biennale Teatro 2013.
In proscenio un ingombrante peluche di ratto, dalle dimensioni umane e insanguinato, è stato il primo avvertimento, ben visibile, seguito da una serie di altre allusioni più o meno evidenti a una certa bestialità che – pare – sta affiorando dalla nostra mansuetudine in carne e ossa, in giacca e pantalone.
Anche il Leone d’Argento Angélica Liddell, per la sua personale versione del “Riccardo III”, ha posizionato in primo piano, circondato da balle di fieno, un enorme animale: simbolo sia del protagonista, che lo stesso Shakespeare definisce «un grufolante, contraffatto cinghiale, segnato dal diavolo», sia del dittatore Francisco Franco.
La prossimità di animale e uomo è stata data invece da una confusione di generi, specie, ruoli e forme in “Natura e origine della mente”, performance di Romeo Castellucci che si apre con un cane miagolante e vagante senza meta, come senza chiara definizione è il resto dei personaggi, apparentemente umani ma concretamente artefatti, ognuno con un dettaglio posticcio in più, che sia un dito, un braccio o un paio di piedi.
Esteticamente impeccabili, gradevoli e benestanti, sono le bestie dirette in scena dal regista irlandese Declan Donnellan, personaggi di un “Ubu Roi” che ha nel suo appartamento bianco e borghese la tana di un lupo. Anzi, di un licantropo: uomo condannato a trasformarsi in una bestia feroce, senza tuttavia perdere la ragione, e a trasmettere (con un morso) la propria condizione a un altro essere umano, per esempio, a suo figlio.
E allora, l’eredità dei padri dev’essere quella stessa insana crudeltà che ha caratterizzato ognuna delle cinque performance unite sotto il nome di “Shakespeare X 5” – spettacoli brevi di Angélica Liddell, Gabriela Carrizo, Jan Lauwers, Krystian Lupa, Claudio Tolcachir sui personaggi shakespeariani – e presentate a seguito degli altrettanti percorsi laboratoriali di Biennale College, la “linea” del festival rivolta alla formazione di giovani artisti.
Certamente, questa riflessione sull’accostamento uomo-animale è una restituzione parziale della Biennale, dettata da curiosità e originata dal desiderio di approfondire i tanti spunti offerti da un cartellone che ha avuto il ben maggiore merito di aver presentato al pubblico italiano titoli e autori, artisti e performer spesso lontani dalle nostre visioni, frutto di tradizioni e convenzioni, ma anche di abitudini e resistenze, a cui siamo così abituati nel nostro Paese.
La Biennale, ad esempio, è stata occasione di incontro con quel particolarissimo modo di fare teatro che viene dall’area belga e che rappresenta a sua volta l’incontro di diverse arti e discipline in un territorio storicamente caratterizzato da una grande tradizione figurativa, soprattutto pittorica. Tanto che i registi sono spesso artisti provenienti dal campo della pittura: è il caso di Guy Cassiers, che oggi appartiene all’epicentro del settore teatrale – in Italia è conosciuto per il suo triennale impegno lirico al Teatro alla Scala – senza tuttavia aver ricevuto alcuna formazione dell’arte drammatica (è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Anversa); o come Jan Lauwers che, quando parla di uno spettacolo da costruire, cita la “tela bianca” su cui disegnare, e che è tornato a Venezia con “Marketplace 76”, un mix di danza, recitazione e canto, con i performer della Needcompany, dalla quale viene anche Gabriela Carrizo, argentina “naturalizzata” belga, e fondatrice di Peeping Tom, compagnia di stanza a Bruxelles che ha incantato anche la platea del festival di Venezia con “32 Rue Vandenbranden”.
E’ proprio la sintesi di diversi codici artistici la cifra stilistica dell’area fiamminga che, incrociando sollecitazioni da danza, teatro, arti plastiche, musica e cinema, rappresenta forse proprio l’essenza del carattere belga, nato con due principali identità ed educato a parlare più lingue, di cui la più eloquente, quella del corpo, riesce ad essere tradotta immediatamente in scena. Questa magia è stato l’orgoglio di quest’ultima Biennale, un’occasione di meraviglia per lo spettatore e – c’è da augurarsi – di ispirazione per i creatori d’arte.