Per il terzo anno di fila, contatti familiari mi permettono di attraversare l’Atlantico e trascorrere una manciata di giorni negli Stati Uniti, a zonzo tra la East Coast e il Midwest. E ogni volta si rinnova la sorpresa andando incontro a un mondo che ci aspetteremmo simile, ma che in realtà risulta eccezionalmente diverso.
Per quanto il sogno dell’Occidente abbia scavato somiglianze in molti aspetti del nostro e del loro vivere, ancora una volta, tornando a casa, sento che ciò che ci accomuna resta molto nell’apparenza, nella superficialità. Le radici che pure erano simili sono ormai lontane nel tempo e su di esse è cresciuto, a una velocità sorprendente, un sottobosco di divergenze storiche e culturali che rende difficile, ormai, trovare consonanze. Questo è vero soprattutto nei particolari, e l’imponenza a volte insostenibile di certe differenze risulta ancora più evidente quando si riesce faticosamente a sottrarsi alla condizione di turista mettendosi nella condizione di vivere una quotidianità. Con la stessa naturalezza con cui ormai mi alzo la mattina consapevole di non essere a Roma ma a Indianapolis o Baltimore, decido di fare quello che farei qui a casa, quello che faccio più spesso: andare a teatro.
Tra il 1° e il 3 gennaio mi trovo a Washington D.C. Ho fatto le mie ricerche e ho scoperto che il teatro di punta è lo Studio Theatre, piccolo tempio della nuova drammaturgia, sede anche di un’accademia di arti sceniche. In quei giorni è di scena la commedia “Superior Donuts” di Tracy Letts. Letts è un attore/regista membro dell’ensemble dello Steppenwolf Theatre di Chicago che avevo visto recitare lo scorso anno in “American Buffalo”, in scena proprio nella capitale dell’Illinois. Come drammaturgo Letts ha vinto, tra gli altri il Premio Pulitzer for Drama e il Tony Award for Best Play nel 2008 con “August: Osage County”. Nella commedia, “Superior Donuts” è il nome di un piccolo e sfortunato negozio di ciambelle alla periferia di Chicago. Il proprietario di origine polacca Arthur Przybyszewski assume come tuttofare il giovane nero Franco Wicks, impelagato in un brutto affare con uno strozzino locale.
Nel testo c’è tutto: il tema dell’immigrazione, il razzismo latente, il sogno americano infranto, la perdita e la riscoperta di un amore, ironia, azione, romanticismo, realismo, riflessione e chi più ne ha più ne metta. Il tutto scritto con grande sapienza da un Premio Pulitzer, interpretato con sorprendente credibilità da attori di tre diverse generazioni, messo in scena con semplicità ed efficienza, costruito e illuminato con sobria mimesi, pieno di ritmo, divertente, senza la trappola del lieto fine e con un messaggio chiaro, preciso, multistrato e illuminante. Esco dal teatro con una gran voglia di ciambelle e caffè e nel totale imbarazzo di non avere niente di critico da dire a mio fratello che mi accompagna.
Passa qualche giorno. Ho avuto tempo di tornare a Indianapolis e ripartire per Chicago, da dove con mia madre riprenderò un volo per l’Italia. Ma non prima di tornare a far visita allo Steppenwolf Theatre di North Halsted St., dove l’ufficio stampa mi ha cordialmente lasciato due accrediti. Fino alla fine della settimana replica “Who’s Afraid of Virginia Woolf?” di Edward Albee. Diretto dal membro della compagnia Pam McKinnon. Gran pienone in sala, pubblico vario e uno spettacolo di quasi tre ore di cui mi sembra di aver visto, a pezzi e chissà quando, una vecchia versione cinematografica con Liz Taylor e Richard Burton. Prima che si spengano le luci faccio in tempo a leggere la nota critica all’interno del programma, che tenta di proiettare la vicenda della commedia in un’allegoria socio-politica. Visione complessa, di certo accreditata, della quale spero di ritrovare traccia nelle ore che seguiranno.
A dispetto della resistenza che ormai ho sviluppato nei confronti delle durate troppo dilatate, i tre atti scorrono con grande fluidità. La storia è ambientata a New Carthage, un’immaginaria città universitaria del New England. George e Martha sono una coppia di mezza età che vive una quotidianità di apparenza e perfide frecciatine. Professore di storia fallito lui, figlia del rettore lei, il loro è stato un matrimonio di convenienza. In un impietoso gioco al massacro verbale fatto di rancori e rivendicazioni di vecchi segreti sepolti, i due finiranno per rovinare anche il rapporto dei giovani Nick e Honey, ospiti per una folle nottata e incarnazione di una sorta di loro alter ego. Risultato: il testo è quanto di meglio scritto ci sia nella drammaturgia americana, l’interpretazione degli attori principali (Tracy Letts e Amy Morton, due mattatori d’altri tempi) assolutamente stupefacente, la controscena degli altri due brillante e impeccabile, la scena e le luci calcolati al millimetro, la regia asciutta e spietata e un ritmo e una crudeltà degni del miglior Bergman. Anche stavolta esco dal teatro senza avere niente, ma proprio niente da dire. Poi, mentre ce ne andiamo verso la metro sotto la neve, capisco dov’è il punto: non ho niente da dire né nel male, né nel bene.
Nei due spettacoli che ho visto ogni cosa è perfettamente in ordine, non c’è una virgola fuori posto, tutto perfetto in ciascun piccolo dettaglio. Una perfetta, asettica riproduzione. Ma una falla nel sistema forse c’è. Niente che intacchi in alcun modo la perfezione dei due lavori e proprio per questo fondamentale: non c’è crisi. Sono andato a vedere due spettacoli con i popcorn in mano. Mi sono seduto in platea e, per quanto preso dalla storia, per quanto divertito, per quanto strabiliato dalla performance del cast, non mi sono sentito per un attimo preso in considerazione. Che quella platea fosse piena o vuota non avrebbe fatto alcuna differenza. Perché gli spettacoli, perfetti in ogni dettaglio, possedevano già in sé una domanda e una risposta. Il pregio è la chiarezza di entrambe, ma l’enorme difetto è l’assenza di un contributo chiesto allo spettatore. «Però che grande interpretazione», commenta mia madre. Eppure nemmeno su questo riesco ad essere d’accordo. La grande interpretazione, penso, non è quella che cancella l’attore, ma quella che lo mette in risalto, che mostra il gioco antico e irripetibile del teatro: l’aspettativa continuamente disillusa.
Se penso agli ultimi due anni e mezzo, passati a vedere un teatro sempre diverso, facendo errori, ricredendomi, cambiando opinione, discutendo, criticando, soprattutto tentando di comprendere, mi chiedo allora con quale spirito occorra vedere uno spettacolo che si limita ad appagarti, senza chiederti alcun intervento. Questo giornale, i lettori lo sanno, applica una selezione a monte: forse non ci interessa il teatro della tranquillità, ma quello della crisi. Andiamo a teatro per cercare qualcosa. Qualcosa che sotto sotto non vogliamo trovare. Facciamo il mestiere degli spettatori non per sentirci appagati, ma per riscoprire ogni volta un’arte che sfugge appena tentiamo di definirla. Resta fermo il fatto che rivedrei altre due volte tanto “Virginia Woolf” quanto “Donuts”, ma mai come in queste occasioni ho sperimentato la freddezza di un mezzo che dovrebbe invece essere incandescente, vibrante, precario.
Comincio il nuovo anno con una grande paura, quella che anche il nostro teatro si cristallizzi in questo modo. Poi mi chiedo se non sia invece il nostro essere spettatori a diventare troppo esigente. Come se la necessità di sentirci “in crisi” fosse un’eredità scomoda, che non riusciamo davvero a comprendere e che, tutto sommato, troppo spesso ci toglie la tranquillità. Eppure ancora oggi, tra andare a teatro e costringermi a leggere nelle splendide parole di Albee e nella stupefacente presenza di Letts un’allegoria di una statistica culturale, e andare a teatro a vedere qualcosa di cui non capisco nulla (e magari sentirmi persino io mancante di perspicacia), preferisco di gran lunga questa seconda sorte. La poltrona dello spettatore non dovrebbe mai essere comoda.
SUPERIOR DONUTS
di Tracy Letts
diretto da Serge Seiden
con Gregor Paslawsky, Julie-Ann Elliott, Jason McIntosh, Barbara Broughton, Richard Cotovsky, Johnny Ramey, Chris Genebach, Logan Bennett, Aaron Tone
Visto a Washington, Studio Theatre, il 2 gennaio 2011
WHO’S AFRAID OF VIRGINIA WOOLF?
di Edward Albee
Diretto da Pam MacKinnon
con Tracy Letts, Amy Morton, Carrie Coon, Madison Dirks
Visto a Chicago, Steppenwolf Theatre, il 5 gennaio 2011