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L’Utoya di Erba e Sinigaglia per la nostra memoria labile

Utoya (photo: Serena Serrani)

Utoya (photo: Serena Serrani)

Il 22 luglio 2011 Anders Behring Breivik uccise, uno dopo l’altro, con la freddezza e la consapevolezza dei giusti, 69 ragazzi laburisti riuniti nella storica sede dei campeggi estivi dei giovani socialisti di tutto il mondo: sull’isola norvegese di Utøya.
Per rendere ancor più efficace la sua azione, ideò un diversivo ben pianificato: un’autobomba nel centro di Oslo, che provocò otto morti. In totale 77 vittime. Il mostro di Oslo, come fu poi soprannominato, è oggi detenuto nel carcere di massima sicurezza di Skien, a due ore dalla capitale.

E’ questo il motivo d’innesco di “Utoya”, scritto da Edoardo Erba per la regia di Serena Sinigaglia, spettacolo che fa riflettere, e non poco, da svariati punti di vista. Oltre al terrore e allo sgomento che si diffondono in noi di fronte a accadimenti del genere, alimentando paure ed insicurezze, resta anche la considerazione, forse la più sorprendente, del perché certe tragedie del nostro tempo si dileguino dalle nostre menti, dai nostri ricordi e dal nostro presente come una pioggerella fine che evapora nel tempo di un mattino.
Soprattutto se, come si legge nel libro “Il silenzio sugli innocenti” di Luca Mariani – scintilla primigenia dello spettacolo -, la strage non è frutto del gesto improvviso di uno squilibrato, bensì è un’azione pianificata da tempo (addirittura nove anni, dichiarerà poi Breivik) e messa in atto con l’intento di colpire il cuore delle giovani “promesse” del socialismo europeo. Una strage politica con profonde motivazioni, come sottolinea la regista Sinigaglia, e come si evince dall’approfondita inchiesta condotta da Mariani.
Anti-multiculturalista, anti-marxista, anti-islamista e sionista, Breivik di recente ha dichiarato una sua conversione presentandosi in aula con capelli rasati e saluto nazista.

“Utoya” ci accoglie a sipario aperto. Sul palco l’evocativa scena di Maria Spazzi: un pavimento di cocci di specchio riflette una luce fredda, incrinata, venata di ferite. Da esso emergono sezioni di tronchi, un paesaggio cimiteriale di lapidi lignee: una terra “guasta” di morte, finita, immutabile, avvolta da una nebbia bianca e fredda, dove si muovono i due protagonisti, Arianna Scommegna e Mattia Fabris, a firmare questa produzione 2015 del milanese Atir Teatro Ringhiera.
Sembra di essere proiettati nella Caina, una delle zone del Cocito dantesco in cui sono sepolti nel ghiaccio fino al collo coloro che tradirono i propri parenti.

In una serata in cui, purtroppo, i due protagonisti – di per sé bravi, come ricordato in molti altri lavori – non forniscono una delle prove migliori della loro carriera, emerge la compattezza, il coraggio e la sfida di un testo che, lontano dalla (facile) formula del teatro civile, affida il racconto a tre coppie (tutte interpretate da Fabris e Scommegna) coinvolte nell’orrenda strage. Attraverso questi sei protagonisti la drammaturgia di Edoardo Erba cerca una via per “spalancare una finestra di riflessione”. E in questo si dimostra efficace.

Ci sono i genitori in crisi di una figlia viziata che il padre, docente progressista, ha mandato al raduno dei giovani socialisti; ci sono due poliziotti in servizio a poche centinaia di metri dall’isola, il cui legame lavorativo è deteriorato dal coinvolgimento emotivo dell’uomo, che nel corso della storia dimostrerà tutta la sua mancanza di coraggio. E infine un fratello e una sorella che vivono in campagna; lei la parte forte, lui quella debole, un essere stralunato per nulla affidabile e un po’ ingenuo: i due scopriranno loro malgrado di essere i vicini di casa di Breivik.

Sulla carta interessante, il trio di coppie risulta alla prova del palco non così efficace. Qualche luogo comune di troppo, salti da una “situazione” all’altra talvolta non troppo ben condotti e qualche svista che stona con l’argomento del lavoro. Nell’economia dello spettacolo la triade non risulta ben equilibrata, sia dal punto di vista drammaturgico che registico. Ed è un peccato.

La domanda che coglie lo spettatore al termine dello spettacolo è la stessa che ha guidato la regista nel suo lavoro, andando a scuotere le nostre memorie sempre più labili, tanto da dover istituire apposite Giornate della Memoria. Ma come possono eventi di tale portata e tragicità essere dimenticati?
Ecco perché uno spettacolo come “Utoya” diviene testimonianza fondamentale e necessaria, soprattutto in questo vortice di accadimenti tragici in cui siamo talmente sopraffatti dagli eventi che il nostro interesse mira ad avere la durata di una settimana o poco più.
Così, mentre scriviamo, la nostra attenzione è stata assorbita dagli eventi di Rigopiano, che a sua volta hanno soppiantato il terribile delitto compiuto da due giovani adolescenti nel ferrarese. E tutto ciò mentre in Siria continua ad accadere di tutto, nel Mediterraneo persone in cerca di futuro continuano ad affogare, in Iraq le autobombe esplodono a ritmo quotidiano decimando la popolazione e via di questo passo.
In fondo, oramai, c’abbiamo fatto l’abitudine. Quasi fosse una macabra estrazione del lotto.

UTOYA
testo Edoardo Erba
con la consulenza di Luca Mariani, autore de “Il silenzio sugli innocenti”
regia Serena Sinigaglia
scene Maria Spazzi
luci Roberto Innocenti
con Arianna Scommegna e Mattia Fabris
produzione Teatro Metastasio Stabile di Prato
in collaborazione con Teatro Ringhiera ATIR
con il patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia in Italia

durata: 1h 05’
applausi del pubblico: 1’ 30’’

Visto a Cecina (LI), Teatro E. De Filippo, il 25 gennaio 2017

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