“Se non avete niente da fare, andate in teatro e dite “Io sono un regista”, e gli amministratori ve lo faranno fare. Anzi, meno sapete fare, meglio è per loro. Così potranno dirigere senza troppi intoppi lo spettacolo”.
È da questa tragicomica riflessione che Anatolij Vasiliev, uno dei maggiori maestri del teatro europeo, erede del metodo Stanislavskij e collaboratore con i più prestigiosi teatri russi, parte per spiegare la necessità di creare una strada didattica per la figura del regista e, in generale, per tutte quelle professioni che ruotano intorno alla messa in scena teatrale. Una strada che si costruirà a Venezia e che condurrà all’Isola della Pedagogia.
Serioso, avvolto in un lungo mantello, Vasiliev rimane seduto in rigoroso silenzio ad ascoltare attentamente la sua traduttrice, senza lasciar trapelare alcuna approvazione o disapprovazione su quanto dicono gli altri correlatori.
A prima vista sembra tutt’altro che accomodante. Ma quando prende la parola, in pochi secondi incanta la platea col suo accento russo forte e determinato. E poi si scioglie: sorride tra la folta barba, ironizza, scherza e parla di sé come un nonno che racconta favole ai nipoti.
Il progetto Isola della Pedagogia, unico in Europa e curato dalla Fondazione di Venezia in collaborazione con la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano, avrà come obiettivo “formare formatori teatrali” sotto la guida del grande maestro. Quasi una versione italiana e in piccolo di quanto accadde nell’87, quando il Soviet di Mosca aprì per lui un nuovo teatro, la Scuola d’Arte Drammatica, in cui unire spettacolo, arte, intelletto, etica e pedagogia.
L’iniziativa veneziana è stata presentata durante il primo incontro di “Open Vasiliev”, percorso di avvicinamento al maestro russo che trasformerà l’isola di Venezia in isola del sapere, per legittimare finalmente i mestieri teatrali e bloccare l’ormai abituale confusione ed improvvisazione che calca le scene.
La denuncia dell’attuale condizione del sistema teatrale arriva dall’interno, come sottolinea Gianpaolo Fortunati, vicepresidente della Fondazione Venezia: “È vergognoso che in Italia non esista una vera e propria scuola d’insegnamento teatrale. C’è bisogno di una riforma del sistema, che permetta agli allievi di acquisire gli strumenti per organizzare la propria conoscenza e sviluppare la capacità di trasformarli attraverso l’esperienza, in principi di vita”.
E ha del filosofico la visione di Vasiliev: “Il teatro vero, reale, nasce e muore. Gli spettacoli sono come le persone: nascono e muoiono. Basta l’arco di una generazione perché il teatro possa nascere e poi morire, ma esiste una parte minima della natura del teatro che continuerà a far nascere continuamente il teatro. Il portatore di questa minima parte, o meglio della “molecola” del teatro, è il pedagogo. Se non dovesse più essere il portatore di questa molecola il teatro non esisterebbe. Per questo ho detto che l’immagine dell’isola potrebbe essere molto più cruda. Ma forse è meglio così, forse la pedagogia non serve più a nessuno – ironizza – Ormai la formula più diffusa è quella dell’autoformazione”. E a ricalcare il concetto aggiunge: “La pedagogia come professione è assolutamente indispensabile, un allievo non può formarsi da solo: la trasmissione avviene solo attraverso un maestro, di mano in mano. I grandi registi devono lasciare dietro di loro una scuola. Cose molto semplici ma che, se non accadono, portano la formazione verso il basso, con il risultato di una grande caduta di livello”.
Trasmettere il sapere è forse una delle padronanze umane più complesse e lente da acquisire, come fa notare Maurizio Schmidt, direttore della Paolo Grassi, in un poetico paragone tra la figura del pedagogo e “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono: “Il libro di Giono racconta di un uomo che cambia totalmente le sorti di un sistema ecologico desertico piantando continuamente alberi. Così, laddove c’era solo sabbia, dopo anni ci sono il verde, bambini, vita. Lo stesso fa il pedagogo: semina nell’allievo ora per vederne i frutti dopo molto tempo. L’azione del pedagogo prevede un lungo tempo di formazione; il primo allievo che uscirà dalla sua scuola opererà in teatro almeno dieci anni dopo, ma avrà le giuste competenze per poterlo fare”.
Il corso, dopo alcuni workshop preparatori, partirà a dicembre 2010, articolandosi in tre moduli di sette settimane ripetuti nell’arco di un triennio. Il metodo utilizzato sarà “attivo e in ensemble”, com’è consuetudine nella pedagogia del maestro russo. La residenzialità del progetto, che si svolgerà interamente a Venezia, garantirà la massima concentrazione intorno al lavoro; la ripetizione nel tempo consentirà la durata necessaria ad un reale processo di formazione, così da metabolizzare quanto appreso durante gli incontri.
La funzione del pedagogo è forse oggi sottovalutata, mentre meriterebbe particolare attenzione: è lui ad avere nelle proprie mani la crescita e il destino dei suoi allievi. E sono proprio quegli stessi allievi che decideranno il futuro del teatro. Ma chi è che insegna ad insegnare? La risposta la dà Vasiliev, raccontando di sé attraverso il ricordo. “Mio padre, dopo la guerra, s’innamorò di un’altra donna e lasciò mia madre, che da quel momento visse per sempre sola. Non c’era mai: andava via la mattina e tornava la sera tardi. E così tutta la vita. Insegnava matematica e i suoi allievi l’adoravano. Conosceva ciascuno di loro personalmente, la loro vita e la loro storia. All’epoca dell’Unione Sovietica era molto importante e molto difficile passare con un buon voto l’esame di maturità, così mia madre “rubava” i compiti degli allievi e di notte di nascosto li correggeva. Commetteva quella rischiosa infrazione perché capiva quanto l’esame di maturità poteva sbarrare la strada e il futuro dei suoi studenti. Mia madre era un pedagogo. Non aveva una casa, non aveva un figlio. Aveva la scuola e i suoi allievi. Li amava. Io la osservavo e senza accorgermene sono diventato anch’io un pedagogo”.
È così che la “molecola del teatro”, di cui Vasiliev si fa portatore, potrà essere trasmessa ad altri, perché “il teatro non si può imparare dai computer né dai i libri. Non si fa con l’intelletto – spiega il maestro rimandando ai Dialoghi di Platone – Il teatro può essere trasmesso solo oralmente, perché solo così accade in maniera invisibile la trasmissione del sapere principale che è nascosto in me e che con la scrittura andrebbe perduto”.