Venezuela di Batsheva Dance Company. Della ripetizione e della memoria

Venezuela (photo: Ascaf)
Venezuela (photo: Ascaf)

Anche quest’anno, rinnovando l’ottima linea curatoriale che nel 2018 portò a Vicenza “Show” del coreografo israeliano Hofesh Shechter, il Teatro Comunale della città continua a portare in scena le eccellenze della danza contemporanea internazionale.
Il 31 gennaio è stato, infatti, il turno della Batsheva Dance Company con “Venezuela”, una delle ultime creazioni del coreografo Ohad Naharin.

La serata si apre nel tardo pomeriggio nelle sale di Palazzo Trissino con un focus sulla danza israeliana contemporanea. A ripercorrere le linee evolutive della israeli dance è la critica di danza del Jerusalem Post Ora Brafman, ma al tavolo degli speaker sono presenti anche il rappresentante della comunità ebraica di Venezia, Paolo Navarro Dina, che sottolinea l’importanza di inciampare sulla granicità della memoria per iniziare una più consapevole e volatile danza della realtà, e Michèle Seguev, addetta culturale dell’Ambasciata d’Israele a Roma, che sottolinea l’attenzione non scontata del nostro Paese per la scena delle arti contemporanee israeliane.

“Venezuela” (il nome della creazione non rimanda al Paese sudamericano ma è pura casualità, spiega il coreografo) si basa su una grande idea strutturale che ne fa un’opera di valore e uno stimolo a riflessioni cruciali per il nostro presente.
Il lavoro, nel suo complesso, è costituito dalla ripetizione della medesima coreografia per due volte di seguito – anche se in scena, con il cambio degli interpreti tra la prima e la seconda “replica”, per un totale di 18 danzatori coinvolti, tutti in total black.
Inoltre, nella prima successione i movimenti di quella danza così fisica che Naharin ha pensato per i suoi danzatori sono avvolti dai suoni assoluti del più mistico canto gregoriano della tradizione occidentale, mentre nella seconda ripetizione il tutto è accompagnato da alcune scelte di musica araba e dal rap di The Notorius B.I.G., cantato da due performer ad un perturbante microfono a ridosso della fine del palco, mentre gli altri danzano, schierati in orizzontale, in una serie di otto danzatori, manifestando un’aggressività capace di imprimersi nella memoria.

E proprio del problema della memoria tratta in fondo questo lavoro di Naharin: cosa significa proporre ad un pubblico, visualmente abituato all’iperstimolo come quello d’oggi, per due volte la stessa coreografia? La memoria edulcora? Viene da chiederselo, perché certi movimenti al primo turno così aggressivi o assoluti e potenti, quando rivisti – poi non più col gregoriano, ma con una musica a noi più vicina che ne rivela anche la provenienza ritmica – sembrano cadere in una più scontata normalità.
Che anche ciò che Israele ha vissuto non faccia in fondo la stessa fine, narrato e rinarrato spesso in forme che non contengono in sé i giusti anticorpi, per una resistenza viva alla banalità appiattente, oggi ampiamente dilagante?

La domanda rimane di certo aperta, ma sta il fatto che questa performance pare confessarci – non senza violenza – una certa nostra complicità a qualcosa contro cui dovremmo invece ribellarci: un messaggio ricchissimo di intensità che emerge quando, individuato una sorta di capro espiatorio e poi circondatolo, i danzatori sbattono a terra attorno ad esso le bandiere di tutti i Paesi del mondo, con un movimento ampio del braccio in cui tutto il corpo è rabbiosamente coinvolto.
Corpi politici insomma, che però sul palco non possono che arrivare a conoscere i limiti di quello che sembra essere un vero e proprio confinamento estetico.

È un capolavoro la scena in cui una serie di quattro masse umane, composte dalle performer sedute a cavalcioni sui performer, si sposta avanti e indietro sulla scena come in un lento esodo, ma è una gabbia che si chiude a chiave nella sua bellezza propria. In fondo infatti, nel loro avanzare e ritornare, i danzatori non fanno che constatare i confini fisici del palco, e tornano così ad un’ambigua direzionalità senza meta, ad un Eden contemporaneo in cui l’unico viaggio possibile sembra essere quello che non porta da nessuna parte, se non alla ripetizione di sé stesso o allo sfogo intrattenibile di un corpo che chiede e richiede di esprimersi politicamente, fuori dal palcoscenico.

Carichi di domande e suggestioni si discute anche fuori dal teatro sull’effetto che la performance è capace di imporre su di noi, spettatori d’oggi e di domani: una serata che consiglia di seguire ancora le scelte future del Tcvi per la danza, e che ne conferma l’importanza per le occasioni che è in grado di creare sul panorama performativo contemporaneo.

VENEZUELA
coreografia di Ohad Naharin
eseguito dai danzatori della Batsheva Dance Company
luci Avi Yona Bueno (Bambi)
colonna sonora Maxim Waratt
consulente musicale Nadav Barnea
design costumi Eri Nakamura
assistente ad Ohad Naharin e Eri Nakamura Ariel Cohen
insegnante dance ballroom Natalia Petrova
assistente Omri Mishael
produzione Batsheva Dance Company
co – prodotto Chaillot National Theater, Paris; Hellerau – European Center for the Arts, Dresden
con il supporto straordinario di Dalia ed Eli Hurvitz Foundation, New Works Funds of Batsheva, The American Friends of Batsheva

Visto a Vicenza, Teatro Comunale, il 31 gennaio 2020

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