Se il Premio Scenario ci consente di comprendere le linee di percorso e l’immaginario che contraddistinguono le nuove generazioni di artisti che si affacciano al mondo teatrale, la Vetrina della Giovane Danza d’Autore, nata nel 1996 e che si svolge a Ravenna all’interno del Festival Ammutinamenti, ci aiuta a comprendere in che modo la danza viene percepita dai giovani danzatori e coreografi che ne vogliono affrontare il difficile cammino, forse ancor più arduo di quello strettamente teatrale.
L’azione della Vetrina, organizzata dal Network Anticorpi XL e che attualmente coinvolge 37 strutture di 15 regioni, si rivolge ai coreografi italiani attivi da meno di cinque anni, e nasce da un’attenta ricognizione dei partner regionali del network nei rispettivi territori.
È un lavoro di scouting che offre ai giovani autori, selezionati con bando annuale da una commissione artistica composta dai partner della rete, una preziosa occasione di confronto con il pubblico e con numerosi operatori nazionali e internazionali, oltre che con altri artisti e critici.
La Vetrina contribuisce anche alla mobilità stessa degli artisti, decretando l’accesso alla rassegna itinerante ANTICORPI EXPLO, realizzata dagli operatori del network per incentivare il fisiologico ricambio generazionale della scena coreografica nazionale.
Ci siamo recati a Ravenna per seguire da vicino le 13 prove d’autore selezionate, per capire i modi e l’immaginario con cui si esprime la nuova generazione della danza italiana.
Senza dimenticare che ci troviamo di fronte a giovani performer, molti dei quali ancora in evoluzione, alcune caratteristiche stilistiche hanno coinvolto una buona parte dei lavori proposti.
Innanzitutto emerge il rifiuto quasi totale di una danza liberatoria nello spazio, che suggerisca sentimenti ed emozioni subitanee nello spettatore: quando questo avviene, l’esibizione ci è sembrata in verità alquanto scolastica; la mancanza di misura è un altro rischio: allungare troppo lo spazio del tempo, nonostante a volte sia presente una bella intuizione iniziale; altro punto di riflessione è la costante ricerca di un’anti-narrazione, che sfocia spesso in un’azione di stampo performativo più che strettamente coreografico.
Rispetto al teatro tout court, abbiamo notato un uso moderato del video. Spesso il corpo è posto come unico strumento della comunicazione, senza scenografie o costumi, se non in rarissimi casi, che diano significato maggiore alla prova.
Ulteriore elemento comune è l’utilizzo di musiche spesso anaffettive, nei migliori dei casi utili a caratterizzare l’ambientazione. Anche l’ironia pare un elemento poco affine allo spirito di quanto si è visto (ma non si può generalizzare, perché invece nella danza contemporanea italiana ci sono artisti che la utilizzano con efficacia).
Infine, ci è parso che in molte delle performance viste a Ravenna mancasse un reale bisogno per la loro realizzazione: l’urgenza; certo non vengono in aiuto le schede di presentazione dei progetti, con contenuti spesso fumosi, che poi nella realtà lo spettatore fatica a trovare (del resto ciò avviene ed è sempre avvenuto in tutte le arti, soprattutto quando le giovani generazioni vi si approcciano per le prime volte).
Osserviamo adesso più da vicino le esibizioni che ci hanno maggiormente convinto.
Partiamo da “T.I.N.A. (There Is No Alternative)” di Giselda Ranieri, danzatrice e coreografa proveniente dalla factory di Roberto Castello, che indaga sulla connessione ritmico-musicale tra voce, gesto e movimento attraverso una coerente e ironica provocazione sul concetto di parola.
Al centro una donna che cautamente, prima a monosillabi sia vocali che corporei, prova ad uscire dall’ansia continua che la contraddistingue, sommersa poi da una miriade di possibilità di azione, informazioni, dati, indici, likes.
Pian piano parole e gesti si sopraffanno a vicenda, fino a che – alla fine – il corpo viene sottratto alla vista da un improvviso bagliore. Una porzione di spettacolo con qualche momento troppo dilatato, ma che contiene in modo convincente tutte le forme che il corpo e la voce, insieme, posseggono per esprimere una vera necessità.
Come già accennato, molti inizi di performance ci hanno particolarmente colpito, anche se poi la tensione iniziale, ben espressa coreograficamente, a volte si perde, come avviene in “La madre folle” di Giada Vailati su musiche (finalmente) di Antonio Vivaldi: dopo un eccellente inizio in cui il concetto di madre natura entra prepotentemente sul palco, l’azione si sposta poi su una specie di maratona trionfante che non ci ha convinto.
In “When I was in Stoccolma” di Fabio Novembrini, su musiche di Simone Arganini, il performer all’inizio colpisce per la forza dirompente che esprime sul palco, che via via però si perde nella seconda parte. Non di meno rimane una eccellente qualità della danza espressa.
Altrettanto convincente, in “Equal to men” di Roberta Ferrara di Equilibrio Dinamico Dance Company, la danzatrice Tonia Laterza, che rimandando ad un immaginario che si rifa alla figura dell’amazzone, si esibisce in una coreografia potente e piena di suggestioni.
Ciò avviene anche nel duetto “Manbuhsa” di Pablo Girolami, in scena con Giacomo Todeschi: con qualche ammiccamento di troppo, ci proietta in un mondo ancestrale dove, seppur in uno spazio asettico, riusciamo a cogliere atmosfere che si perdono nella natura, anche per merito dei semplici ma significanti costumi di Caterina Politi, riverberando il microcosmo degli uccelli.
Sul piano della performance, verrebbe da dire, di stampo dadaista è “Annunciazione” di Greta Francolini, in scena con Chiara Bollettino: il lavoro si configura come un divertissement che si misura con diversi suoni, da Handel alla musica folk ai CCCP, e anche una nenia cantata dal vivo: “La musica esce dall’immagine e supera la bidimensione – annuncia l’artista – E’ l’unico elemento che dà un volume e quindi un colore a ciò che si vede in scena. L’elemento sonoro è utilizzato proprio a questo scopo, entrare in una dinamica narrativa che si incolli all’elemento visivo di per sé vuoto”.
Ci ha incuriosito e divertito “Lost in this (un)stable life” di Nicolas Grimaldi Capitello in cui, con evidenti richiami pittorici, due corpi (uno nudo e uno vestito) si muovono in uno spazio circoscritto, una piccola piscina da bambini, da dove escono muovendosi instabilmente in un mondo che non appartiene più a loro.
Ci è piaciuta molto anche Sara Sguotti in “Space Oddity”, una performance che nasce per il pubblico e che vive della relazione con lo spazio. La performance è resa possibile grazie allo studio del luogo, ed è limitata da un tempo che l’autrice ama definire “i 5 minuti di gloria della solitudine”, un tempo dettato da una clessidra che determinerà il crearsi e lo svanire delle relazioni.
Al di là della qualità della danza, ancora da registrare, ci sembra importante il rapporto della performer con lo spettatore prescelto.
Infine segnaliamo “DOYOUWANNAJUDGEME”, coreografia, regia, video e interpretazione di Maria Vittoria Feltre, Luca Zanni e Nicola Simone Cisternino, in cui i costumi colorati e le pose rimandano al “Giudizio Universale” di Michelangelo. Rispetto a seguire la coreografia sul palco, più interessante e meno didascalico ci è sembrato il rapporto che lo sguardo dello spettatore ha con il video in scena.