Da La Veronal a Krystian Lupa i grandi nomi internazionali, ma tante altre proposte provenienti da sette diversi Paesi
Il Vie Festival “post-emergenza sanitaria” torna a presentarsi ad ottobre, così come avveniva in passato, anticipando di poco l’apertura della nuova stagione teatrale di ERT, come a voler presagire l’avvento di qualcosa di nuovo.
Dopo la drastica interruzione della programmazione nel 2020, Vie ha riaperto i battenti giungendo finalmente alla XVI edizione, la prima sotto la direzione di Valter Malosti.
Il progetto, con la solida curatoria di Barbara Regondi, trova una nuova ondata d’entusiasmo dalla contaminazione con “Carne”, il focus di drammaturgia fisica a cura di Michela Lucenti, artista associata per tre anni. Il risultato è una programmazione intrecciata e multidisciplinare che riconferma l’acume di questo festival, attento ricettore degli artisti più interessanti e innovativi a livello nazionale ed internazionale.
L’edizione di quest’anno ha riunito 17 artisti e compagnie provenienti da sette Paesi diversi – Marocco, Libano, Grecia, Polonia, Germania, Spagna e Italia – per un totale di 32 repliche, tra prime nazionali, prime assolute ed artisti giunti in Italia per la prima volta.
Gli spettacoli, tutti di altissima qualità e di prestigio, si sono distinti per l’uso variegato dei linguaggi dell’arte performativa, che di volta in volta trova ispirazione nella letteratura, nella filosofia, in tradizioni popolari, nel presente o nel passato, nel reale o nella finzione, esplorando la commistione con le altre arti, sino ad arrivare a farsi inglobare dalle tecnologie interattive.
A volte però non è stato facile abbandonarsi ad esperienze estremamente diverse e distanti tra loro, defocalizzando lo sguardo per entrare in sintonia con lo spettacolo successivo. Per il pubblico è risultato a volte complesso farsi una visione unitaria delle giornate di festival, quando gli appuntamenti erano dislocati nei vari teatri di Modena, Bologna, Cesena e Vignola (per quanto lo sforzo in termini di spostamento sia stato facilmente superabile grazie al servizio della navetta).
Tra le poche attività extra che hanno affiancato il programma, si è sentita la mancanza di momenti di dibattito ed incontro con gli artisti, workshop ed eventi di ritrovo dopo gli spettacoli. E’ spiccata invece la presentazione della piattaforma on demand Prospero Extended Theatre, realizzata dall’omonimo network internazionale. Il progetto, cofinanziato dal Programma Europa Creativa, vede l’impegno di nove teatri partner europei – tra cui ERT -, e del media partner Arte, che attraverso la creazione di questa piattaforma rendono disponibili gratuitamente tutta una serie di contenuti digitali, quali registrazioni di spettacoli, interviste, documentari, sottotitolati nelle varie lingue. Un progetto ambizioso, che amplia la diffusione della scena teatrale contemporanea europea, in linea con la creazione di un teatro senza muri, storicamente perseguito da ERT.
Un festival dunque dagli ampi orizzonti (forse un po’ dispersivo), attraversato con interesse e dedizione dagli addetti ai lavori e dagli spettatori più attenti, e che gode di una buona attenzione mediatica.
Se il grande pubblico ancora non risponde all’appello come si auspicherebbe (problematica generalizzata, acuitasi negli ultimi anni) bisogna però sottolineare che alcune produzioni sold out hanno saputo creare una stretta relazione con il pubblico.
Citiamo a tal proposito “Il Capitale” della compagnia bolognese Kepler-452 (prodotto da ERT), una delle proposte più interessanti tra i debutti italiani (ne parleremo dettagliatamente in un prossimo articolo) che, ispirandosi al testo di Karl Marx, trova nel licenziamento degli operai della fabbrica GKN, nella loro lotta e nelle loro manifestazioni, l’occasione di ripensare l’essenza del proprio fare teatro.
Alla prima, tenutasi all’Arena del Sole di Bologna, nella sala dedicata a Thierry Salmon, si è notata subito la presenza di alcuni spettatori “insoliti” rispetto agli habitué: i figli e le mogli degli operai che hanno recitato nello spettacolo a fianco di Nicola Borghesi.
Qualche giorno dopo, al termine di una replica, la platea piena di operai ha intonato un coro con i pugni rivolti verso l’alto: un episodio significativo e impattante che ha palesato non solo il bisogno degli operai di farsi ascoltare, ma anche il bisogno del teatro stesso di farsi strada in maniera preponderante nella vita delle persone. “Il Capitale”, così come altre produzioni presentate al festival, sembrano voler interrogare l’edizione di quest’anno sul senso del teatro oggi, sui linguaggi che adotta e sul ruolo che assume in relazione alla società che interpreta e a cui si rivolge.
Questi aspetti vengono toccati in maniera strabiliante da un altro sold out: “Opening night” della compagnia spagnola La Veronal, con la regia di Marcos Morau (di cui su KLP abbiamo già parlato in occasione di Romaeuropa) che, attraverso l’architettura di una visuale ribaltata del palcoscenico, offre al pubblico la possibilità d’addentrarsi nei meandri più oscuri e misteriosi del mondo del teatro. Dichiaratamente ispirato a Gena Rowlands nell’omonimo film di Cassavetes, lo spettacolo inizia dalla fine, ossia dagli inchini e dai ringraziamenti della prima attrice (interpretata da Monica Almirall) che viene acclamata dal pubblico. Ma non appena si conclude il lungo monologo di ringraziamenti, ecco che si rivelano alla vista degli spettatori tutti quegli elementi che normalmente rimangono nascosti dietro alle quinte e ai fondali del palco. Il mondo delle prove, i meccanismi che compongono la finzione, il processo di creazione dei personaggi, la drammaturgia, la regia, le luci, gli oggetti di scena, i vestiti, le maschere, gli strumenti musicali… Sono loro i veri protagonisti dello spettacolo, compresi i camerini, le luci di servizio, i quadri elettrici, le americane, le corde, i tappeti…
Una squadra di attori e di tecnici (sembrano tantissimi, ma in realtà sono in otto) animano una moltitudine di scene in successione, intrecciate o in parallelo, in cui la danza emerge con frenesia tra passi a due, soli, coreografie di gruppo e una serie infinita di azioni tecniche che i performer devono compiere prima e dopo l‘entrata in scena. Accendere luci, interruttori, neon, aprire e chiudere porte di servizio, entrare e uscire dalle botole, avvolgere tappeti, spostare sedie, oggetti, strumenti.
I corpi dei performer lavorano senza sosta, a servizio totale della finzione. Vestirsi, svestirsi, ripetere all’infinito sequenze di movimenti, scavare nel profondo di sé per riuscire a infondere credibilità, autenticità e vita alla propria interpretazione. Ma risulta evidente che, in questa ricerca estenuante della perfezione, i performer siano condannati a vivere come automi da palco, fantocci spersonalizzati, in lotta con sé stessi, imprigionati nella circolarità della propria danza.
Un’ora e venti di frenetica poesia visiva, ricca di citazioni e rimandi alle creazioni più significative dell’ultimo secolo (come “Caffè Müller” di Pina Bausch), un vero e proprio omaggio al teatro e alla vita di grandi artisti.
Se l’edizione di Vie di quest’anno è sembrata voler interrogare il rapporto tra la realtà e la finzione, il legame che tiene unite queste due polarità, ogni spettacolo ha offerto al pubblico una esperienza estetica diversa, attraverso cui è possibile trovare spunti di riflessione, punti di domanda e chiavi interpretative circa il proprio ruolo di fruitore e di costruttore di senso.
Ad esempio in “Karnival” (altra produzione ERT) di Balletto Civile con la regia della Lucenti, l’ago della bilancia pende marcatamente dal lato della finzione.
Lo spettatore assiste al dispiegarsi di una storia noir, ambientata in un hotel durante i giorni del carnevale, in cui personaggi misteriosi e grotteschi, intrappolati nelle proprie stesse ossessioni, non possono far altro che lasciarsi travolgere dal corso ineluttabile degli eventi. Uno spettacolo potremmo dire “classico” dal punto di vista della costruzione drammaturgica, ma anche a livello di fruizione: lo spettatore, comodamente seduto in poltrona, osserva il dispiegarsi della trama al di là della quarta parete.
Il coinvolgimento del pubblico è totalmente affidato alla capacità seduttiva dell’arte di creare una sorta di sospensione temporale in cui abbandonarsi emotivamente al racconto.
Lo spettatore dunque diventa partecipe nella misura in cui si lascia coinvolgere dalla potenza della musica eseguita dal vivo, dalle sonorità dei canti, dall’intensità delle luci che colorano la scena, dalla bellezza evocativa dell’immagini, dall’abilità dei performer di dare vita e spessore ai personaggi che incarnano.
Alla stregua del rito del carnevale, il teatro offre agli spettatori l’occasione di perdersi ed evadere dalla realtà per sublimare la paura più terrificante di tutte: la morte.
In altre produzioni il rapporto tra realtà e finzione è stato invece meno lineare e i due elementi tendenti a sovrapporsi, unirsi, confondersi. Si tratta di lavori sperimentali in cui il concetto stesso di performance vira verso nuovi orizzonti, trasformando inevitabilmente anche il rapporto con lo spettatore.
È questo il caso di “I AM (VR)”, una delle proposte più originali ed innovative presentate dal festival, che si distingue per l’utilizzo delle tecnologie interattive.
Si tratta di una breve performance di 35 minuti, creata dalla regista tedesca Susanne Kennedy assieme all’artista multidisciplinare Markus Selg e con la collaborazione di Rodrik Biersteker.
Qui la performance non esiste più fisicamente sul palco, trattandosi di un format virtuale, racchiuso nella scrittura di un programma, la cui fruizione da parte del pubblico avviene in maniera individuale tramite un visore per immagini tridimensionali.
L’affluenza delle persone è preventivamente scaglionata in piccoli gruppi, affinché il personale di sala possa guidare ogni singolo spettatore all’interno di una piccola stanza vuota. Lì gli viene indicato di sedersi su un tappeto e di indossare cuffiette e visore; dopo di che viene lasciato da solo e lo spettacolo ha inizio in un tunnel fluorescente pieno d’acqua.
La voce calma e pacata di un uomo guida lo spettatore ad affrontare questa nuova esperienza, alla quale non è detto che sia preparato. Può infatti non essere immediato riuscire ad entrare in confidenza con questo tipo di fruizione, ma non si tratta di capire le regole del “gioco”. Volente o nolente lo spettatore è chiamato ad intraprendere un viaggio in una sorta di mondo psichedelico parallelo. Un viaggio in cui lo spostamento non si realizza materialmente, ma avviene all’interno della propria psiche.
Gradualmente, una tappa dopo l’altra, lo spettatore acquisisce maggiore dimestichezza nell’orientarsi e nel muoversi all’interno della realtà simulata. Gli scenari variopinti, estremamente suggestivi e immaginifici, destano curiosità e stupore; l’ignoto a cui si va incontro crea tensione, eccitazione, paura, ma anche temerarietà, concentrazione, attenzione. Ogni esperienza virtuale è unica (o quanto meno appare tale) e lo spettatore man mano che avanza, che si avvicina al traguardo da raggiungere, diventa sempre più consapevole della centralità del proprio ruolo all’interno di questa performance cyborg.
All’uscita si cerca il confronto con il resto del pubblico per raccontarsi i reciproci vissuti, non essendo abituati a fruire di una performance in piena solitudine; del resto, una delle prerogative del teatro è proprio quella di essere dal vivo. Mentre in “I AM (VR)” l’unico elemento dal vivo che permane è lo spettatore: è nei meandri della sua percezione che ha luogo la performance.
Lo spettacolo stimola dunque ad interrogarsi sulla percezione della realtà, sulla capacità dei nostri sensi di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, in un’era in cui la manipolazione delle informazioni offusca terribilmente l’entità delle cose.
La moltitudine di forme che Vie ha abbracciato in questa edizione sono tutte sfaccettature dello stesso caotico mondo in cui abitiamo, in bilico tra reale e fittizio. Non importa in quale teatro, in quale città, se siamo attori o spettatori, se ci troviamo o se ci perdiamo… Tutto oscilla labilmente da una polarità all’altra, in assenza di certezze.