Da Orroli con il Diario dalle Ville Matte. Atto II

Orroli
Orroli
Orroli (photo: Laura Paola Borello)

Due carrucole, una corda, scotch isolante nero: la lista della spesa di oggi si compone nella mia mente, dalla penombra di un armadietto in cui sono incastrata e chiusa. Un coltello adagiato in un bicchiere di vetro mi punta. “Le tempere! Niente, dimenticate a Genova”.
A conclusione della seconda settimana di lavoro siamo nel pieno della creazione. E una certa euforia, a tratti anche ansiogena, comincia a dilagare!

Le prime prove di tenuta di ciò che si è scritto giungono a scuotere i nostri corpi ricolmi di gnocchetti e carne di pecora, scatenando un intenso brulichio di domande, gesti incomprensibili, richieste, scambi, test, con un gioco di squadra per cui a turno ciascuno diventa attore, regista, attrezzista per mettere in scena un estratto del lavoro dell’altro.

E così, mentre attraverso Orroli con la scopa sotto braccio, mi godo la nostra dolce invasione nel paese. Ad ogni angolo uno di noi chiede informazioni, aiuti, consigli agli autoctoni, che si dimostrano incredibilmente cordiali, gentili e disponibili al dialogo, al confronto o all’aiuto pratico. “Ma sì, questi ragazzi figli dei fiori”, penseranno seduti davanti alle porte delle rispettive case. Da un certo punto di vista, in effetti, siamo buffe figure che si aggirano per il paese.

Ora che ‘l’opera d’arte è nata’, almeno a livello teorico con l’esaurirsi dell’argomento di discussione della prima settimana, si procede con l’analisi del suo spazio e tempo. La parte seminariale di confronto collettivo sull’argomento (che in questi giorni ha avuto come tema ‘Il tempo e lo spazio nell’opera d’arte’) si è sensibilmente ridotta per lasciare posto alla scrittura, allo studio e alle sperimentazioni personali. Per queste ultime, così come per la messa in scena finale prevista a conclusione della residenza, sono stati messi a disposizione molti luoghi, l’uno assai diverso dall’altro: il teatro (sfruttato dal palco ai corridoi laterali e al foyer), la ‘Casa Carrus’, nostro principale luogo di lavoro e studio, la biblioteca, la ludoteca e vari spazi all’aperto, tra questi una chiesa/casa abbandonata, al cui fascino non ho saputo resistere ed eleggendola così a luogo delle mie sperimentazioni.

Iniziata e mai terminata, questo luogo mi ha rapito per il suo duplice aspetto: da un lato la compiutezza e il decoro esteriore, quasi forzato a seguire la forma delle abitazioni vicine, e dall’altro l’incompiutezza interiore, generatrice di infiniti mondi, una caratteristica che le dona un tono quasi di rivalsa interiore sull’esterno. Al fortissimo desiderio iniziale di entrarvi per scoprirla e capirne la natura, segue il bisogno opposto di uscirne. Ed è interessante che un luogo abbia un proprio definito tempo di esplorazione per conservare la capacità di lasciar uscire da sé le persone, senza ingabbiarle, ma lasciando loro modo di recuperare lo spazio aperto, l’aria e la luce del mondo.

Il mondo. Già. Salgo sulla bicicletta aderendo con entusiasmo alla proposta di una mia compagna di andare a lavorare sulle colline. Ma prima di arrivare in alto scopro due cose: innanzitutto che forse è meglio riprendere il nuoto, giusto per non sentire le voci degli altri distanti mille miglia avanti a me, e la seconda – fatto ancor più tragico – che non so assolutamente usare le marce di una bicicletta! Così, alla mia veneranda età, a svelarmene i trucchi sono quattro bambini che mi corrono intorno.

E finalmente ecco l’incontaminato spazio collinare, con una grande pietra sotto un ulivo e stretti muretti di recinzione che delimitano lo spazio d’azione delle pecore.
Quando la concentrazione arriva, mi ritrovo a orecchie ed occhi spalancati. Non guardo e ascolto nulla in particolare ma accolgo tutto ciò che si fa sentire, che giunge ad intercettare il mio corpo. Percepisco la presenza della mia compagna e poi la diversità opposta del nostro modo di lavorare: io in perfetta immobilità fisica con una piccola manina che scarabocchia disegnini sul quadernetto nero; lei in piedi, in movimento sul prato secco.
Non la vedo ma percepisco la sua presenza, l’allontanarsi e l’avvicinarsi del suo movimento da danzatrice, e così gioco a contare il tempo dei passi per sentirne il ritmo, mentre allo stesso tempo rimango concentrata sul mio lavoro, e nello scrivere seguo la visione della collina che scende fino ad Orroli, il ritmo della natura e dei suoi passi. In parallelo. O forse in sincrono.

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