Vincent River di Philip Ridley per la regia di Carlo Emilio Lerici. Quando un bel testo non basta

Vincent River
Vincent River
Francesca Bianco e Michele Maganza (photo: Sebastiano Pellion di Persano)

Carlo Emilio Lerici riporta in scena un testo che aveva visto il proprio debutto nell’ottobre 2008 all’Opere Festival al Castello Odescalchi di Bracciano. Il festival co-produceva la prima nazionale della versione italiana di “Vincent River”, discusso testo del drammaturgo londinese Philip Ridley. Già grande successo al debutto nel 2000 all’Hampstead Theatre di Londra, la pièce ha conosciuto in dieci anni altrettante diverse edizioni, realizzate in dieci paesi tra Europa e Nord America. Allora veniva pubblicato come grido disperato in risposta al susseguirsi di certi atti di barbarie omofoba. E di certo non è un caso che torni in scena in queste stagioni italiane, in cui si tornano ad ascoltare echi che mettono i brividi.
Grande successo allora, grande successo ora, almeno a sentire la maggior parte della critica. Cerchiamo, con grande cautela, di capire perché.

La vicenda è quella del giovane David che, dopo qualche settimana di vistosi pedinamenti, viene invitato in casa da Anita River, piacente donna di mezz’età che ha da poco perso il figlio Vincent, omosessuale trentenne massacrato di botte da una banda di teppisti nei bagni della stazione abbandonata di Shoreditch, alla periferia di Londra. Non ci vuol molto a capire che, nonostante la reticenza, David conosceva Vincent da molto vicino, né tanto occorre a immaginare che ad unirli fosse proprio una passione prorompente. Così come è facile immaginare che, nei confronti di quell’amore speciale, si opponga un rifiuto da parte della madre, specchio di una società indifferente e anche solo per questo colpevole. Più interessante è lo spunto con cui Ridley manda avanti l’incontro tra Anita e David: i due si promettono di raccontarsi l’un l’altra particolari del povero Vincent. La prima ha in serbo ricordi d’infanzia e oggetti-reliquia dal sapore di madeleine proustiana, il secondo il flashback del primo incontro e l’esplodere del sentimento, ma anche gli ultimi respiri di Vincent agonizzante, soffocati dal sangue e gelati dalla neve.

Da che mondo è mondo, se c’è una cosa che sceneggiatori e drammaturghi britannici sanno fare, è assestare pesanti pugni nello stomaco. Basterebbe citare il “Terminus” di Mark O’Rowe e “Macadamia Nut Brittle” di Dennis Cooper messi in scena proprio al Belli da Babilonia Teatri e Ricci/Forte, ma anche i 17 eccentrici “Attempts on her life” di Martin Crimp o i “My arm” e “An oak tree” di Tim Crouch di cui si è occupata l’Accademia degli Artefatti. Tutti spettacoli in cui il testo era di per sé violento, spietato, impossibile da masticare, non fosse che messinscena e interpretazioni ammorbidivano la carne al punto da condensare l’effetto nausea solo a ingerimento avvenuto. Un’operazione crudele, radicale, soprattutto estremamente sottile, che rischiava da un momento all’altro di scadere nel sadismo di maniera. E invece no, ché fortunatamente, fatti da parte i giudizi di gusto – sempre in agguato in certo teatro di ricerca – tutti gli artisti citati avevano fin troppo mestiere da dimostrare, fin troppo talento da vendere. Fin troppo ingegno per rischiare di rimanere schiacciati da un testo che, alla fin fine, è e deve restare materia da plasmare.

Riportando l’attenzione alle parole “messinscena” e “interpretazione”, indichiamo dove, a nostro parere, lo spettacolo di Lerici manca quell’obiettivo. La scelta di fornire ai due attori uno spazio essenziale, fatto solo di scatoloni mezzi aperti, potrebbe essere interessante, consegnandoci la sensazione che si abbia a che fare con una zona limite, a metà tra fuga e approdo, con tanto ancora da tirar fuori, quando mai trovassimo la forza di farlo. È un’intuizione dignitosa, in linea con il senso del testo, sempre che si riesca a farla vivere. Francesca Bianco e Michele Maganza, che giù dal palco sono madre e figlio, si trovano a dover costruire un rapporto da zero, con poche coordinate che non siano quelle dello scambio di ricordi. Il famoso schema del racconto per interposta persona dovrebbe, nelle intenzioni di Ridley, essere la ragnatela in cui s’impigliano le maschere scivolando via a lasciar vedere il volto vero: la codardia di David che non salva Vincent diventando per primo vittima di quella vergogna, il rimorso di Anita per non aver mai voluto, in cuor suo, conoscere il figlio. Il racconto incrociato dovrebbe essere fuoco di sguardi, pause da cui il dialogo riparte ogni volta da capo, alla ricerca di una familiarità tra due mondi, unione necessaria e forse mai davvero possibile.

Purtroppo la recitazione dei due attori resta indietro, gravita costantemente sopra le righe, appare scollata nei ritmi e innamorata dei toni, pericolosamente tesa verso la caricatura proprio laddove testo e regia sembrerebbero volersi unire nella costruzione di una naturalezza. La maggior mancanza si manifesta forse nell’attenzione al corpo, che per entrambi gli attori è congelata in spasmi muscolari disordinati e movimenti scenici che troppo spesso lasciano la figura nella penombra ai lati del piazzato. A volte bastano poche leggerezze nella misura dell’ascolto in scena a rovinare quasi del tutto le scene migliori del testo – anche quelle che la regia aveva centrato, una su tutte quella del primo “viaggio a ritroso” di David nel bagno dove giace il cadavere.
Sembra esserci davvero poca coesione delle energie, poca intimità con personaggi che dovrebbero essere viscerali e scorrono invece spesso bidimensionali, come sagome che scappano via. La performance tecnica si permette troppo spesso intoppi nell’articolazione delle parole, che alla lunga stancano e sfiduciano, così come certi errori di sintassi che svelano la memoria a macchinetta. Tutto questo, unito a qualche vistosa macchia nella traduzione di Fabiana Formica e a qualche svilente distrazione nell’allestimento (i cd “preferiti” di Vincent escono dalla scatola ancora avvolti nel cellophane), rischiano di rendere l’adattamento di Lerici una prova che, tutto sommato, non rende giustizia al successo della pièce come testo d’autore.

Potremmo essere stati spettatori di una replica sfortunata, ma le motivazioni di messinscena del regista – per quel che abbiamo visto – sono state offuscate da molte piccole e grandi debolezze.
È doveroso aggiungere che l’enorme apprezzamento accordato dal pubblico e dalla maggior parte della critica hanno fatto tuttavia di questo spettacolo un successo di grande risonanza (ha partecipato al Belli alle rassegne “Trend – Nuove frontiere della Scena Britannica” e “Garofano Verde – Scenari di teatro omosessuale”), aggiungendo in questa stagione date a Milano (Teatro Libero, fino al 26 gennaio) e a Palermo (Teatro Libero dal 25 al 27 febbraio).

VINCENT RIVER – Sodoma e Gomorra alla stazione di Shoreditch
di Philip Ridley
traduzione: Fabiana Formica
produzione: Dritto&Rovescio, Trilly Produzioni, Teatro Belli, Opere Festival 2008, Trend Nuove Frontiere della Scena Britannica
adattamento e regia: Carlo Emilio Lerici
interpreti: Francesca Bianco, Michele Maganza
musiche: Francesco Verdinelli
scene: Giorgio Baldo
durata: 1h 28’
applausi del pubblico: 3’ 07’’

Visto a Roma, Teatro Belli, il 15 gennaio 2010

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