“Per me questo premio non è il coronamento del lavoro di una vita, lo vedo piuttosto come un obbligo a continuare il mio viaggio”. Sono le parole pronunciate – in ottimo italiano – da Krzysztof Warlikowski stringendo tra le mani il Leone d’Oro alla carriera 2021 del 49° Festival Internazionale del Teatro, voluto dai direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte e conferitogli dalla Biennale di Venezia.
Il primo ringraziamento è andato al suo team e alla compagnia del Nowy Teatr di Varsavia, ed è a Zygmunt Malanowicz, uno dei membri della compagnia morto quest’anno di Covid a pochi giorni dal debutto di “Odyssey”, che il regista polacco ha voluto dedicare il leone alato: “Questo premio è anche per te, Zygmunt”.
Poi, con la tenacia di chi è abituato a non vanificare nulla, a chiedere di più alla perdita e alla mancanza, trasformando anche l’esperienza più terribile e dolorosa in pensiero, in sentire, in domande necessarie per sé e per gli altri, si è rivolto agli spettatori in sala chiedendo: “Cos’altro è morto di Covid? Cosa abbiamo irrimediabilmente perso?”, portando così l’attenzione di tutti sull’importanza di coltivare la memoria individuale e collettiva, non per un’esigenza di conservazione, o per sollevare una buona o una cattiva coscienza, ma per organizzare nuove possibilità di vita.
“Il regno della memoria è sempre meno accessibile per noi. Viviamo solo nel presente, e più siamo giovani più siamo immersi in una versione virtuale del presente. E sembriamo curarci meno del passato, sembriamo occuparci meno di ciò che ha dato vita alla nostra cultura, ai nostri pensieri, ai nostri traumi, ai nostri sogni […] Se ci tagliamo fuori dalla memoria non siamo più in grado di capire il mondo in cui viviamo […] Abbiamo il dover di combattere per la nostra memoria, perché ci sono tante persone là fuori che vogliono che dimentichiamo. Raccontare storie è un modo per preservare la memoria”.
E dove, se non in teatro, raccontare storie, dare nuova vita a quelle passate, renderle materia politica?
Ecco allora che la storia raccontataci da Warlikowski in “We are leaving”, tratto da “Suitcase Packers” di Hanoch Levin, è quella di una comunità formata da piccoli microcosmi familiari invischiati nel dolore di matrimoni paludosi, di relazioni annichilite, nella violenza di rapporti familiari e sociali, nella sofferenza di un irrinunciabile desiderio di amore, nella mancanza di identità e di sogni in cui credere. Una comunità che lungo la strada si lacera – come del resto succede a tutti noi, nel nostro piccolo mondo – perdendo uno a uno i suoi membri: una commedia per otto funerali, recita il sottotitolo, anche se i funerali saranno molti di più.
Dicono bene il duo Ricci/Forte nella motivazione al premio scrivendo che Warlikowski “scandaglia i meccanismi di difesa di quelle vite rammendate lontane da qualsiasi traguardo, isolotti alla deriva costantemente minacciati di sommersione”.
Nei microcosmi di “We are leaving” la vita è fatta di frammenti, e sovrapposizioni, a volte confusi e indefiniti; sono piccoli pezzi di puzzle che il più delle volte non si incastrano da nessuna parte.
Per i personaggi – interpretati da 21 attor* straordinari – cercare una via di fuga è una costante: quasi tutti sognano di partire, di lasciare la loro terra, il loro passato, di allontanarsi da ciò che è e che non è, di andare a cercare quella felicità che è sempre altrove, magari in qualche luogo in Europa o in America; infilano il loro zainetto sulle spalle, pronti per partire, ma solo alcuni lo faranno davvero, e di questi pochi c’è chi farà ritorno portando addosso i segni della felicità illusoria di un altrove che promette ma non mantiene.
“We are leaving” è uno spettacolo dall’architettura impeccabile, fortemente e frontalmente dialogico e corporale, in cui vengono ben dosate spietatezza, pietà e ironia. Quelle che vediamo sono vite in divenire, vittime forzate o volontarie, dove ogni corpo, con la propria feroce singolarità, diviene metafora di sé stesso e della collettività di cui condivide i malanni. I corpi sono già malati o temono la malattia. Ma questo non impedisce loro di vivere come vuole “la cicala”: a una sigaretta ne segue un’altra senza soluzione di continuità, buttano giù uno shottino dopo l’altro fino allo stordimento, e c’è sempre tempo e voglia di ballare, e di scopare, tanto da diventare, per alcuni, un’ossessione se non una perversione.
Anche la musica (di Mirosław Burkot), cornice drammaturgica di ogni quadro, è inarrestabile: cambia il brano, si modifica il ritmo, muta l’occasione ma non si interrompe mai. Attimi di ebbrezza che sono altrettante piccole fughe, ma anche piccole concessioni di gioia. Poi si muore.
C’è chi muore di costipazione, chi di tumore, chi d’infarto per il troppo sesso, chi di vecchiaia, e di mal di cuore, chi si toglie la vita impiccandosi. Si muore sia per mancanza sia per eccesso di qualcosa.
La morte è il punto fermo in un flusso incostante, ricompatta per un attimo la comunità prima che le singole individualità riprendano il loro continuo precipitare in avanti.
Qui il rito funerario esce dall’oscurità, dal nascondiglio, è visibile ogni volta, come tutto il resto. E trova il suo luogo intimo dietro una lunga fila di porte di vetro trasparenti, che tagliano sul fondo il palcoscenico in due, di qua la vita, di là il compianto (la scenografia è di Małgorzata Szczęśniak). Non è chiaro in quale delle due parti ci sia più sofferenza, più crudeltà, più dolore o più indolenza.
In fin dei conti se ne fregano più della vita o della morte?
In quella che sembra essere una sala d’attesa – potrebbe essere anche una di quelle grandi vetrate che si trovano negli aeroporti, da cui si possono vedere gli aerei spiccare il volo – c’è una fila di sedie su cui ognuno siede dando le spalle al pubblico – come ognuno di noi in platea dà le spalle a chi è seduto nella fila dietro.
In alto, sullo schermo gigante, campeggiano il nome del defunto, data di nascita e morte, e subito dopo appare la foto, non quella tipica dei necrologi, ma una foto che ritrae non il personaggio ma l’attore nella sua giovinezza, in un lampo di bellezza, di gioia e spensieratezza quasi beffarda: “Scrivete che sono morta a otto anni, dopo non ho più vissuto…” supplica Henia, uno dei personaggi dello spettacolo. Un cortocircuito tra realtà e finzione che si ripete più e più volte, investendo noi spettatori, seduti nella medesima “sala d’attesa”.
WE ARE LEAVING
Tratto da: “Suitcase Packers” di Hanoch Levin
Traduzione in polacco: Jacek Poniedziałek
Adattamento: Krzysztof Warlikowski, Piotr Gruszczyński
Regia: Krzysztof Warlikowski
Scene e costumi: Małgorzata Szczęśniak
Musica: Paweł Mykietyn
Design luci: Felice Ross
Movimenti: Claude Bardouil
Animazioni e video: Kamil Polak
Drammaturgia: Piotr Gruszczyński
Collaborazione alla drammaturgia: Adam Radecki
Trucco e parrucche: Monika Kaleta
Con: Bartosz Bielenia, Mariusz Bonaszewski, Agata Buzek, Andrzej Chyra, Magdalena Cielecka, Ewa Dałkowska, Bartosz Gelner, Maciej Gąsiu Gośniowski, Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, Jadwiga Jankowska-Cieślak, Wojciech Kalarus, Marek Kalita, Dorota Kolak, Monika Niemczyk, Maja Ostaszewska, Jaśmina Polak, Piotr Polak, Jacek Poniedziałek, Magdalena Popławska
Direttore di scena: Łukasz Jóźków
Assistenti alla regia: Katarzyna Łuszczyk, Adam Kasjaniuk, Jeremi Pedowicz
Direttore di produzione: Hubert Prekurat
Direttore tecnico: Paweł Kamionka
Costruzione del set: Paweł Paciorek
Suono: Mirosław Burkot
Luci: Dariusz Adamski
Video: Tomasz Jóźwin
Trucco: Joanna Chudyk, Monika Kaleta
Oggetti di scena: Tomasz Laskowski
Costumi: Ewa Sokołowska, Elżbieta Fornalska
Palco: Tomasz Laskowski, Kacper Maszkiewicz
Traduzione in italiano: Marzenna Smoleńska
Sottotitoli: Zofia Szymanowska
Produzione: Nowy Teatr, Varsavia
Co-produzione: Théâtre National de Chaillot, Parigi; La Comédie de Clermont-Ferrand; Théâtre de Liège, Hellenic Festival, Atene; Bonlieu Scène national Annecy; CULTURESCAPES Svizzera, Basilea
Visto a Venezia, Teatro alle Tese, il 3 luglio 2021