L’appuntamento è stato dato tre mesi fa, alla fine di dicembre. Il pomeriggio del 1° gennaio, mentre si era ancora provati o baldanzosi per i postumi di San Silvestro, è arrivato il primo sms: era Werther, il mio nuovo amico, ma per convenzione e per immutabile sorte letteraria destinato a non rimanerlo troppo a lungo.
Prima di entrare nel vivo delle suggestioni di questo interessante viaggio teatral-letterario-tecnologico, occorre una breve premessa perché il “Werther Project” è una operazione complessa.
Ispirato e tratto da “I dolori del giovane Werther” di Goethe, la riscrittura di questo pilastro della letteratura non è da intendersi assolutamente come semplice adattamento teatrale in chiave postmoderna del romanzo epistolare pubblicato nel 1774 dal poeta tedesco. In primis perché Sonia Antinori, che lo ha ideato, dispone di una gamma molto vasta e sfaccettata di competenze teatrali, che fanno di lei non una semplice scrittrice né una drammaturga pura, o meglio non solo, bensì un Dramaturg, figura mutuata al teatro tedesco che sottintende contemporaneamente abilità da letterato-teatrante. Insomma una figura che riesce a far convergere qualità di scrittura scenica, di proiezione storica, di adattamento (da non confondere con la trasposizione), magari di traduzione, nonché organizzative, da un punto di vista intellettuale e culturale. In pratica il Dramaturg è impastato fino al collo con la scrittura di un progetto scenico, indissolubilmente legato alla costruzione per intero di un evento teatrale.
La sfida, a Sonia Antinori insieme ad altri due drammaturghi, fu lanciata dieci anni fa da Valeria Valente, che chiese loro tre diverse ipotesi sceniche per raccontare la storia del Werther di Goethe.
Ciò che venne fuori dalla Antinori fu un progetto alquanto avveniristico per l’epoca, quando ancora mail ed sms, pur entrati nella nostra quotidianità, non avevano assunto la valenza di oggi. Il progetto comprendeva un prologo tecnologico di preparazione al momento teatrale vero e proprio, durante il quale era previsto l’invio di messaggi ed e-mail ad un pubblico precedentemente reclutato. Queste comunicazioni avrebbero rappresentato le lettere che Werther inviava all’amico Guglielmo – Wilhelm – nei primi due “libri” del romanzo di Goethe. La terza parte del testo invece, quella narrata come fosse una postilla dell’editore che ricostruisce la morte di Werther sulla base di testimonianze, sarebbe stato il momento di rappresentazione scenica vera e propria, immaginata dalla Antinori come una festa funebre. Un appuntamento a distanza, in pratica, al quale il pubblico già coinvolto nel prologo si sarebbe presentato portando, quasi come un flash mob, il proprio contributo, la propria storia impastata con quella di Werther, dopo tre mesi di scambio.
Il progetto lì per lì venne tuttavia messo in stand-by, anche perché la Antinori fu scoraggiata da insigni rappresentanti dell’intellighenzia teatrale del Belpaese, che consideravano il progetto, con scarsa lungimiranza, poco appetitoso, eccessivamente complesso, o ancora snaturante rispetto ai desideranza teatrali dell’epoca.
A dieci anni di distanza Sonia Antinori racconta di essere stata presa, oggi, da una sorta di frenesia, dall’urgenza di raccontare questa storia secondo il “format” ideato, non solo per evitare che l’idea venisse in mente a qualcun altro, ma anche per la contemporaneità dei risvolti con cui la riscrittura ha cercato di evolversi dalla versione originale per recuperare e restituire ancora oggi il senso della follia d’amore, della passione folle e disperata.
Ecco allora che Werther s’innamora di Lotte, una prostituta africana. Ed ecco ancora che la sua morte viene raccontata non più dal prologo commosso ed educato di un fantomatico editore, ma dalla cerchia di lei, dai suoi compaesani africani, dal capo villaggio, dalle donne e dagli uomini vicino a Lotte, che hanno conosciuto quell’uomo bianco strano e triste.
Nelle dodici settimane del prologo tecnologico, mi sono affezionata a Werther. Ha scritto mail e mandato sms per rivelare la sua inquietudine esistenziale e l’amore esploso per Lotte. Mi ha spappolato il cuore raccontando dell’impossibilità di averla perché promessa ad un altro, mi ha fatto sperare quando ha tentato di riprendere la vita in mano in stile “faccio cose, vedo gente”, per sbattermi di nuovo in faccia l’ineluttabilità di certi sentimenti. Che si fa in questi casi? Si parte. E Werther è partito. È volato in Africa, lo ha annunciato così, con un sms che diceva più o meno: amico mio non ci crederai ma sono volato fin quaggiù da lei.
Aveva bisogno di respirare ancora il suo amore, Werther. E laggiù, nel continente nero, il mio eroe malato d’amore conosce il marito di Lotte, Albert, e ci diventa amico quasi. Ma questo bianco nel villaggio crea un po’ di scalpore e morbosità: che c’è tra lui e Lotte? Lei lo allontana un po’, quel tanto che basta a far maturare in lui la consapevolezza di un destino spaccato.
“Adesso dunque nn mi resta ke spegnere quella stanza piena di luce ke lei mi ha acceso dentro? E se anke ne trovassi il coraggio cosa sarebbe la vita a questo punto? Se questo skermo avesse voce ora, mi sentiresti urlare”.
E’ questo l’ultimo messaggio mandato da Werther al suo amico privilegiato, Guglielmo, prima di darsi la morte.
Ebbene, Guglielmo sono io, Guglielmo siamo noi, Guglielmo sono tutte le persone che hanno partecipato al prologo tecnologico del “Werther Project”. Guglielmo sono tutti quelli del blog della rassegna “Scompagina/3 – libri in scena con dedica a Valeria Moriconi”, per tre mesi invitati a rivestire un ruolo fittizio, quello dell’amico di Werther, e come tale ad interagire con lui per essere parte integrante della scrittura scenica.
Siamo stati in tanti a giocare al Guglielmo, ognuno con uno pseudonimo mutuato dal nome dell’amico: Elmo boy, Guglielma, Elemetta Slacciata, Wilhelmo, o ancora Polpy, Elicia, Lalli, Angelo, Ken, ed un Theodor Adorno. Ne sono successe delle belle: sono volate accuse di volgarità e codardia perché sul blog nessuno ci mette la faccia, si è diventati amici, sono scattate simpatie, ci si è insultati perché un vero amico di Werther non avrebbe scritto certe cose, è stata lanciata pure una piccola sfida: presentarsi la sera a teatro ognuno con un fiore all’occhiello di un colore diverso per riconoscersi, ma anche per omaggiare l’amico morto. Ed anche se virtuale, Werther è stato vivo in noi.
In scena, la sera del debutto, si è così svolto quello che potremo dire un funeral party.
Gli attori evocano, immersi nella vita del villaggio, con i loro strumenti, i loro suoni, i riti, la loro materia fatta di sabbia, luce e stoffe colorate, immagini e suggestioni degli ultimi momenti di vita di Werther.
Né lui, né Lotte, né Albert (il marito di Lotte) compaiono mai in scena, ma si racconta di loro sempre in terza persona. Solo per un attimo i corpi di due attori sembrano come posseduti, mentre danzano vertiginosamente, dall’energia di Werther e Lotte, come fosse il frutto di un rito woo doo.
Tuttavia non ha molto senso scrivere dello spettacolo in sé, un’ottima prova di attori non professionisti tutti di origine africana e reclutati dalla Antinori grazie a Stefania Scuppa, mediatrice culturale che ha girato, nel vero senza della parola, tra le case degli immigrati della Vallesina, poi coinvolti in un laboratorio di tre mesi.
Non ha molto senso, si diceva, riflettere solo sul valore della recita, prescindendo da tutto ciò che c’è stato prima, senza aver vissuto il prologo, perché in realtà lo spettacolo è iniziato tre mesi fa.
Questo permette di comprendere anche la perplessità di quanti vi hanno assistito senza partecipare alla fase precedente, smarriti alla ricerca di un senso ed un significato, magari coerente e rispettoso del testo originale, senza poter afferrare la parte più reattiva dell’opera di Goethe che Sonia Antinori ha cercato di restituire: la follia e l’abisso in cui il giovane Werther trascina da secoli tutti coloro che hanno avuto la fortuna di camminargli accanto.
WERTHER PROJECT
dal romanzo epistolare “I dolori del giovane Werther” di J.W. Goethe
un progetto ideato, scritto e diretto da Sonia Antinori
mediazione interculturale: Stefania Scuppa
training attorale: Fausto Caroli, Lucia Mascino, Fiorenza Montanari
organizzazione: Michela Cavaterra
con: Ciryelle Ahounan, Ruddi Amon, Magaye Cisse, Agnes Faye, Christiane Oumy Sene, Dramane Sylla, Mamadou Sylla, Dominique Tshisende, Nsima A. Udo-Umoren
costumi: Stefania Cempini
disegno luci: Francesco Dell’Elba
progetto nato dalla collaborazione di MALTE con Cohabitat/Assessorato alla Cultura della Provincia di Ancona e AMAT, in coproduzione con Scompagina 3 e con il sostegno di Fondazione Pergolesi Spontini, Centro Valeria Moriconi, Assessorato all’Integrazione del Comune di Jesi, Assessorati alla Cultura dei Comuni di Maiolati Spontini, Ostra e Staffolo, CIS, Loccioni
durata: 50’
applausi del pubblico: 5’ 43’’
Visto a Jesi, Teatro Studio Valeria Moriconi (Teatro San Floriano), il 27 marzo 2010
prima assoluta