Tanti sono i versi per i quali si potrebbe prendere “When the rain stops falling”, testo del 2008 del drammaturgo australiano Andrew Bovell, progetto di lacasadargilla con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli, e prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due, messo in scena con grande successo di pubblico all’Argentina di Roma.
Se le liste sono uno stratagemma dichiaratamente formalistico che dichiara l’incapacità di essere organici, occorre cedere a questa scorciatoia per tentare di non lasciar fuori troppo materiale di uno spettacolo complesso e profondo: “Una saga familiare, un viaggio nel tempo dalla struttura affascinante per raccontare la storia di quattro generazioni di padri e figli, delle loro madri e mogli, i cui destini si sovrappongono in un intreccio di fili narrativi”.
Punto primo – due equivoci nonostante i quali.
Due equivoci sullo scrivere un testo radicato nella contemporaneità continuano ad aggirarsi per la drammaturgia angloamericana, forse per il suo costante dialogo col mondo del cinema (e con quello del mercato).
Il primo: che l’essere contemporanei significhi prendere una storia naturalistica e spezzettare in un intreccio inestricabile la fabula, volutamente ignorando che la sfida radicale è stata (e per molti continua ad essere) non il rimescolamento, ma il rifiuto della trama.
In “When the rain stops falling” un ragazzo che non ricorda nulla del padre per esserne stato abbandonato da piccolo, si mette alla sua ricerca, e questa indagine attraversa quattro generazioni, a ritroso (dal 2039 al 1959) e in avanti.
Il modo in cui questa storia è messa sulla scena è un arzigogolo artificioso, che denuncia costantemente la mano dell’autore, e tuttavia riesce nell’intento di essere seducente. Facciamo prima conoscenza con i personaggi ignorando chi siano, approfondiamo i loro caratteri in momenti distanti e apparentemente slegati l’uno dall’altro; ci accorgiamo lentamente della presenza di enormi ellissi temporali segnalate anche da sovratitoli; e solo alla fine realizziamo il ruolo che tali personaggi hanno nel grande gioco della trama. E così, di riflesso, quel carattere assume un rilievo rinforzato, e del personaggio ci ritroviamo innamorati.
L’andamento è a spirale: di periferia in periferia i rapporti si chiariscono, l’assurdo delle coincidenze e la tragedia di azioni ineluttabili emerge, finché si giunge al centro e il punto tematico principale del lavoro si palesa, premio di un vagare tra foschie e inferenze. Tale movimento investigativo, accoppiato al disvelamento dei rapporti tra i personaggi, è una caratteristica viscerale del testo, e non cessa nemmeno una volta chiariti tutti punti.
Nell’ultima parte del lavoro l’investigazione si fa ansia chiarificatrice, e al suo culmine dà l’impressione di abbandonare l’osservazione per l’azione, sembra inseguire i personaggi non più per scrutarli in volto ma come per acciuffarli e abbatterli, si direbbe addirittura spingendoli oltre un finale che parrebbe legittimo. Ecco che ne rivolta le viscere sul palco con un aumento di toni al limite della sostenibilità e un’ansia di bruciare ogni ambiguità, di accompagnare con rigoroso inflessibile piede ogni personaggio verso la chiarezza definitiva, ineluttabile, quella in cui ogni cosa è squadernata: la tomba.
E questo è il primo equivoco, risolto però con maestria. Non si tratta di un tentativo di rigenerazione autentica della rappresentazione realistica. Si tratta di un puro gioco di tecnica e artefazione, in cui la dispositio sovrasta e governa l’inventio. Un’operazione formalistica.
Il secondo equivoco, che col primo è collegato e che salta a piè pari tanta della letteratura europea del secolo scorso, è l’automatismo secondo cui il senso della vita risiederebbe (o si riscontrerebbe in forma amplificata, meglio osservabile) dentro caratteri ed eventi eccezionali: la perversione malata, l’imponderabile delle coincidenze, l’assurdo di qualcosa che “eppure è accaduta”, le posizioni al limite del ventaglio delle inclinazioni umane. E così l’atto criminale, alla maniera dei feuilleton figli del verismo, divengono eventi immancabili per un testo che voglia destare interesse, e di per sé significativi.
Tale fiducia pare ottimistica: è universalmente sperimentato che l’orrore è oggi ben più vivo e assai più statisticamente rilevante nella grigia quotidianità.
Punto secondo – persistenza del simbolo.
L’esistenza del simbolo in letteratura non è conclusa; esso è sopravvissuto impavido, oltre ogni ottimismo, a Brecht, alle Neoavanguardie e persino a Robbe-Grillet.
In “When the rain stops falling” la ricerca del padre, una ricerca condotta in lotta contro il silenzio della madre e che condurrà il giovane in Australia, gli farà incontrare un breve e bruciante amore al quale lascerà la terribile eredità di un lutto impossibile da abbandonare. Ebbene questa sorta di sconcertante telemachia è traboccante di simbologie evidenti e sotterranee, che riescono a tener stretta una trama presentata con l’intreccio che si diceva, che compie balzi di trenta o cinquant’anni.
La furia dei tifoni e delle eruzioni vulcaniche evocate fanno quindi da contraltare alle citazioni dell’Encyclopédie di Diderot, per significare forse l’antica dittologia natura/cultura, furia incontrollata/ricomposizione razionale, travolgendo il personaggio di un padre pedofilo malgré lui.
E ancora, il ritorno ossessivo – quasi a tormentone – del pesce come preziosa fonte di fosforo se cotto in zuppa, profezia dello spopolamento dei mari ma anche come imago Christi; e l’anfibologia onomastica Gabriel-Gabrielle (questi i nomi di due dei personaggi) a ricordare la figura del nunzio evangelico, ma anche di colui che punì Sodoma. Insomma un centone affascinante qui solo accennato e in cui occorrerebbe scavare ancora.
Punto terzo – quant’è importante la confezione.
E quanto è consolante, di tanto in tanto, persino riposante, imbattersi a teatro in una confezione pensata e studiata al dettaglio per confluire con le battute degli attori in un testo completo ed efficace, che respira lo stesso respiro delle atmosfere.
La scenografia di “When the rain stops falling”, pensata da Carlo Sala e costruita dal Laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione guidato da Gioacchino Gramolini, fanno del ferro il materiale principe. Una lunga tavolata segmentabile, allungabile e ripiegabile su sé stessa percorre longitudinalmente la scena, attorniata da un numero variabile di sedie, pure metalliche.
Quello stesso ferro poi si arrampica sul fondale proiettato con texture spazzolate e si amplia in una gamma metallica dal rame al bronzo all’acciaio più azzurro, sui quali giocano le luci, decimo attore in campo, di Luigi Biondi. Queste, costantemente palpitanti, prese talvolta da frenesia, altre volte gettate violentemente sul fondale, come a evidenziare un’assenza, una ricerca, o mobili e affannate come un respiro di assolvenze e dissolvenze continue, riempiono e animano lo spazio.
Pure di ferro sono certe sfumature salmastre dei costumi, essenziali e letteralmente cuciti addosso ai caratteri, opera elegante – e nobilmente lontana da ogni chiassosità – di Gianluca Falaschi, pronti a virare all’asfalto umido di pioggia e, per contiguità, al lacustre, al fangoso, al sabbioso, alla sottigliezza di certi cotoni che sembrano scoppiettare sotto il vento dei deserti australiani.
A orchestrare tutto ciò la regia di Lisa Ferlazzo Natoli, che vi riesce con una mano sicura e delicata, sotto la quale la recitazione disomogenea degli attori raramente disturba per qualche impennata accademica o automatismo naturalistico, dimostrando invece una comprensione generalizzata delle parti. La prestazione epicamente distaccata di Marco Cavalcoli, a cui è assegnata l’apertura e la chiusura del testo, esalta la trama, che ha struttura circolare, e con dizione volutamente segmentata e quasi astratta, fa da cornice al lavoro, permettendo al quadro di rilevarsi dalla parete a cui è affisso.
WHEN THE RAIN STOPS FALLING
Quando la pioggia finirà
di Andrew Bovell
da un progetto di lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli
traduzione Margherita Mauro
con Caterina Carpio (Gabrielle York-vecchia), Marco Cavalcoli (Gabriel York), Lorenzo Frediani (Andrew Price), Tania Garribba (Elizabeth Perry in Law-vecchia), Fortunato Leccese (Gabriel Law), Anna Mallamaci (Gabrielle York-giovane), Emiliano Masala (Henry Law), Camilla Semino Favro (Elizabeth Perry in Law-giovane), Francesco Villano (Joe Ryan)
scene Carlo Sala
costumi Gianluca Falaschi
disegno luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Ferroni
disegno video Maddalena Parise
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Teatro Due con il sostegno dell’Ambasciata d’Australia e Qantas
durata 1h 55′
applausi del pubblico: 2’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 3 marzo 2019