Si è conclusa nei giorni scorsi la diciassettesima edizione di Gender Bender, festival pluridisciplinare prodotto dal Cassero di Bologna che, nel campo della performance e della danza contemporanea, ha avuto anche quest’anno la capacità di raccogliere alcune tra le proposte artistiche più radicali in relazione ai temi che da quasi vent’anni indaga e racconta con grande varietà.
L’edizione di quest’anno si è aperta con “Common Emotions” della coreografa israeliana Yasmeen Godder, presente in scena per invitare il pubblico ad entrare nel lavoro, che vede sei danzatori esplorare le relazioni e le emozioni che nascono all’interno di un gruppo.
Sul palco un intrico di tessuti raffazzonati un po’ a casaccio divide lo spazio in due parti; al pubblico, a turno, è chiesto di oltrepassare questa sorta di tenda per andare in una “zona riservata” seguendo le indicazioni dei performer, che propongono diversi compiti o azioni, così da aumentare la partecipazione e cambiare il punto di vista.
Ma cosa succede in quell’oltre per chi rimane in platea, a guardare il tutto accadere simultaneamente?
La forza del lavoro sta proprio qui: in questa sua possibilità plurale di approccio e di fruizione, che implica anche la consegna ad ognuno di un’esperienza tutta personale e differente. C’è chi rimane ad osservare, c’è chi parla, c’è chi si abbraccia, tutto in tanti ed unici punti compresenti della performance.
Sul palco i suoni e le voci che provengono da questa “zona riservata” si uniscono al dialogo tra alcuni spettatori seduti in un cerchio.
E’ una forza generatrice, anche quando, nel caos generale, uno dei performer continua solitario a danzare, immerso in un silenzio tutto suo: figura possibile o allegoria dello stato dell’arte e della condizione dell’artista in essa. È ancora possibile fare danza oggi, sembra dirci questa scelta coreografica: è possibile farlo senza perdere nulla in termini di artisticità, ed è la danza stessa la prima a poterci parlare di tale possibilità.
Il vero centro gravitazionale dello spettacolo sta, però, nella figura di Yasmeen che, coinvolgendo il pubblico, da un lato apre le grandi potenzialità di un’intimità istantanea che una situazione simile può dare, ma che, al contempo, creando ed utilizzando istruzioni ben determinate, confeziona per gli spettatori dei limiti identitari tanto precisi quanto difficili da valicare.
Cade davvero, allora, la posizione di potere della coreografa che si tentava di erodere di fronte al tanto ambito audience engagement? Forse la genuinità è solo apparente, ma la Godder sembra averne piena coscienza, confermando così il dominio assoluto sulla situazione. Viene da pensarlo anche di fronte alle scelte meramente coreografiche dello spettacolo, con movimenti sempre eccessivamente patetici per corpi esasperati quasi fino allo spasimo, in un sentimentalismo fisico-estetico che è prossimo a toccare il ridicolo. Emozioni condivisibili e condivise da tutti, quindi, sì, ma senza dimenticare l’altra faccia: dalla banalità alla più alta umanità, in uno spettro che non conosce soluzioni di continuità, e che offre allo spettatore la possibilità di sperimentare il proprio sé emotivo.
Per confermare la centralità della presenza della Godder all’interno del festival 2019 basta guardare al suo altro spettacolo in programmazione: “Stereotypes Game”, concepito per spettatori adolescenti.
Il pubblico è seduto direttamente in scena ed è chiamato ad entrare nel lavoro guidato dagli ottimi Shuli Enosh e Ofir Yudilevitch, capaci di usare alcuni estratti dai lavori più recenti della coreografa come materia viva per una riflessione che non si stacca dalla corporeità della mente.
I due performer mostrano – e riproducono – una vera e propria antologia di gesti, cui segue poi una serie di domande per gli spettatori sulle implicazioni che quegli stessi movimenti hanno in termini stereotipici, e specie in relazione a cosa sia il maschile e cosa il femminile. Lasciando alcuni movimenti a metà, bloccati magari con la schiena reclinata, le due figure in scena non temono di interrogare chi le guarda, arrivando a mostrare con straordinaria semplicità – e, si direbbe, spaventosa chiarezza – quanto il nostro modo di pensare il corpo e le sue pose sia relazionato e sottomesso ad un gioco di ruoli che ha strettamente a che fare con gli stereotipi di genere.
La problematicità aperta non si ferma, però, solo qui, se è vero che proprio la danza – specie nella sua manifestazione in forma di balletto – è la prima accusata come grande bacino di alimentazione di questo cielo di idee fisse: da mettere – ci chiede forse il lavoro – nuovamente in moto, da riportare agli stati di fluidità e gassosità.
Il carattere giocoso che caratterizza tutto “Stereotypes Game” è forse l’elemento che ne conferma la profondità essenziale ed onnipervasiva, con una chiusa che, dopo aver fatto muovere il pubblico su linee immaginarie – contorni ideali di una vera e propria spazializzazione concreta degli stereotipi – non fa che lasciar cadere questi ultimi, li decostruisce per portarli ad esaurirsi in sé stessi, vedendoli cadere, infine, nel semplice peso-piuma del corpo.
Common Emotions
Coreografia: Yasmeen Godder
Interpreti: Shuli Enosh, Dor Frank, Yasmeen Godder, Uri Shafir, Ari Teperberg, Ofir Yudilevitch
Costumi: Gili Avissar, Adam Kalderon
Light design: Omer Sheizaf
Sound Design: Tomer Damsky
durata: 1h 10′
Stereotypes game
Choreography: Yasmeen Godder
Performers: Shuli Enosh, Ofir Yudilevitch
durata: 60′
Prima nazionale
Visti a Bologna, Gender Bender Festival, il 25 e 26 ottobre 2019