Linda Kapetanea e Josef Frucek, direttori artistici con Marina Petrillo della rassegna Resistere e Creare, presentano il loro ultimo lavoro in anteprima al Teatro della Tosse
Si può dare una forma al silenzio? Si può dare corpo al non suono? E come lo si può fare attraverso la scena e la danza?
Incontriamo Linda Kapetanea e Josef Frucek per parlare del loro nuovo lavoro, presentato in occasione della nona edizione di “Resistere e Creare”, la rassegna di danza contemporanea del Teatro della Tosse di Genova, di cui condividono dallo scorso anno la direzione artistica insieme a Marina Petrillo.
Nel loro “ΣΙΩΠΗ [silence]” Kapetanea e Frucek, coreografi fondatori della compagnia Rootlessroot con base in Grecia, esplorano il grande tema del silenzio e lo sviscerano sul palco in una messa in scena molto asciutta, diretta, pragmatica e solenne.
«Il silenzio è qualcosa che riguarda molto la società contemporanea: dobbiamo sempre parlare, avere successo, dire la nostra opinione a voce alta, ma a volte il silenzio può parlare più delle parole – ci racconta Josef Frucek – Spesso, per restare in silenzio, dobbiamo fare un grosso sforzo».
«Capiamo che è molto difficile parlare di silenzio – continua Linda Kapetanea – Nello spettacolo c’è un solo vero momento di silenzio, ma arriva in un momento esatto, dopo una grande esplosione di suoni e rumore. D’altronde, il silenzio si può avverare anche in un ambiente molto rumoroso».
La sensazione che si ha nel vedere lo spettacolo è innanzitutto di religiosità: la scena è completamente nera, vi si muovono sei danzatori, tra cui Linda, piedi sempre nudi, vestiti in sobrissimi e austeri costumi neri, la presenza di un altare mobile, vero tavolo sacrificale su cui viene evocato il mito di Abramo e Isacco.
Frucek e Kapetanea ci raccontano di aver pensato al silenzio come a una situazione di trauma e che, nel cercare una storia che potesse parlarne, hanno individuato dapprima il sacrificio dell’agnello, poi il sacrificio di Isacco per mano del padre Abramo, gesto di cieca obbedienza in nome della fede a Dio.
Parallelamente a questa narrazione biblica (che loro rileggono anche in virtù delle riflessioni di Kierkegaard), viene naturalmente da pensare all’antico sacrificio del capro, che lega indissolubilmente morte e vita alla rappresentazione teatrale nella più antica civiltà occidentale, quella greca appunto, per i cui i riferimenti si palesano nell’identità stessa della compagnia (non sarà un caso che, per la prima volta dal 2007, il cast di Rootlessroot è composto al 100% da interpreti greci).
L’altare sacrificale, richiamo religioso in senso assoluto talvolta ricoperto da un drappo nero, rende oggetto la tensione verso il metafisico, il credo, la fede, e diventa una superficie da cui il suono si propaga; nel momento senza musica, la danzatrice scivola sul ruvido tavolo di legno manipolata e spinta da due uomini, e il rumore dell’attrito della pelle sulla superficie è amplificato e diventa il suono-tappeto della performance. La figura martire dell’eletta al sacrificio è generatrice del suo stesso suono di morte e destino che si dipana sul vuoto sonoro a riecheggiare nelle casse in diffusione.
Parlando ancora di oggetti scenici, non si può non far riferimento alle corde, otto lunghe stringhe elastiche che i quattro uomini scuotono e sbattono al pavimento, facendole vibrare nella sequenza iniziale. Il loro vibrare diventa immediatamente ipnotico, è il suono stesso che prende una forma visiva e assume una sua immagine; abbiamo l’idea di visualizzare le onde sonore stesse, insieme ai corpi dei quattro uomini che, intenti a sudare in questo faticoso e lungo lavorio, diventano semplici operatori di scena, burattinai, operai del suono.
Una lettura ulteriore ci viene offerta da Josef Frucek, ed è un’opportunità di riflessione semantica oltre che poetica: ci parla di “string theory” che in italiano viene detta “teoria delle stringhe”, ma che nell’inglese richiama propriamente le corde, di una chitarra o di un violino, ma anche gli archi, oltre che le stringhe stesse.
È proprio la “string theory” ad essere particolarmente pregnante nella lettura di questa performance: detta in soldoni, ponendosi come soluzione di compromesso matematico fra la fisica quantica e la fisica classica, essa accomuna l’esistenza del tutto cosmico grazie alla teorizzazione di tante infinite piccole stringhe che vibrano e risuonano (in dieci o undici dimensioni diverse), e che ingenerano la nostra esistenza nel senso più assoluto e astratto, in un universo fatto di multiverso, di big ben e di buchi neri.
La rappresentazione visiva della “string theory”, anticipata dal momento dei quattro danzatori, si completa sulla scena nell’ultimissimo quadro, in cui un danzatore rotea la bianca stringa elastica in un vortice infinito (come fosse una Loïe Fuller del terzo millennio), sotto un’alienante luce a strobo che ne restituisce un’immagine a fotogrammi in dinamica, come lo studio in una continua evoluzione della vibrante stringa metafisica mossa dal vivo corpo dell’interprete. Un’immagine assoluta e forte, fortissima, vibrante, un’epifania cosmica disturbante e allo stesso tempo chiarificatrice e pregna di significato.
Ogni tendenza verso queste interpretazioni “fisiche” e “meta-fisiche”, così astratte e cerebrali, è sapientemente contro-bilanciata da una fortissima fisicità terrena, energica, dinamica, atletica.
I corpi di questo ensemble hanno muscoli importanti, dinamici, i piedi nudi ben piantati a terra ma veloci nel saltare, girare, calciare, le lunghe braccia tese e morbide ma roteanti come delle rapidi fruste taglienti. Kapetanea stessa in scena si esibisce nella sua ottima danza cruda e bruta, alta e maestosa figura dalle lunghissime braccia scoperte, le spalle esplosive e i bicipiti allungati e nervosi come fibre elettriche; quando rotea gli arti diventa una dea ibrida, un po’ Atena e un po’ Shiva, che disegna e crea l’universo stesso a partire dalla danza delle sue lunghissime membra, che fendono l’aria usando ogni possibile libertà di combinazione. Il segreto di questo stile è proprio la sua sincerità: «Io sono quella Linda, sul palco ci sono io, magari posso interpretare un ruolo o una figura, ma sono sempre me stessa; chi mi vede per strada vede questo mio corpo, una figura forte certamente. E poi amiamo la fisicità, quindi ci muoviamo in questa direzione».
«Se sei un danzatore, devi danzare – prosegue Josef – non puoi stare tanto a pensare alla danza: devi agirla, la danza dovrebbe nascere dall’azione; se sei un calciatore devi giocare a calcio, non parlare del calcio; se sei un poeta, per favore scrivi poesie, non discutere su cosa si dovrebbe scrivere».
È questo senso di pragmaticità nell’azione e nella composizione, scenica e coreica, che ci dà una chiave di lettura per il lavoro di Rootlessroot: ne emergono le forme pratiche, asciutte, eppure creative (i danzatori hanno, sia in fase di composizione che nella rappresentazione stessa, una certa libertà di azione e di espressione) che portano questa cifra unica, dal tono indubbiamente terreno e quasi violento nel suo essere privo di propaggini estetiche, di inutili abbellimenti.
Non dobbiamo tuttavia pensare a “Silence” come ad uno spettacolo completamente nero, mortifero, in cui il guizzo vitale è dato solo dal movimento e dal suono. L’allestimento visuale, nella sua completezza, è invece particolarmente ricco: ciò è possibile grazie a un sapiente uso delle luci, molti sagomatori, molti disegni dati dai coni di luce delle teste mobili, in un continuo cambio di situazioni; ma anche grazie al momento, unico, in cui i colori entrano in scena. Questo avviene attraverso un continuo svelamento di tessuti, uno sopra l’altro, che dapprima avvolgono il corpo della danzatrice che ne viene coperta, come un fantasma o una donna in burqa, e che svela pian piano i tanti strati di differenti colori, sfogliando di dosso le stoffe ad una ad una, a rivelare ogni volta un tono diverso.
Lo spiega Frucek: «La situazione del sacrificio sull’altare ci dà l’occasione di presentare una palette di colori: il bianco dell’agnello, il rosso sangue, il giallo per il grasso, il nero per la pecora controcorrente; questi colori vengono presentati in maniera molto semplice e compressa in un’unica occasione nello spettacolo. I tessuti sono come delle pelli colorate, o delle bandiere».
Ecco che il suono, per sinestesia totale, prende colore e corpo, i tessuti fasciano e nascondono la fisicità dell’arte come le opere di Christo impacchettano i monumenti, rendendoci l’effetto di un vivo “Cristo velato” in scena.
“ΣΙΩΠΗ [silence]” è uno spettacolo che suona – e risuona – roboante nella sala del teatro, unendo l’eternità del sacro con la più fisica carnalità del presente, e congiunge il simbolico al pragmatico, vita e morte, micro e macrocosmo, concertando tutti questi elementi, come in una “string theory”, attraverso l’azione generatrice dell’infinita e vorticosa vibrazione di una corda sonora.
ΣΙΩΠΗ [silence]
Ideazione e coreografia Linda Kapetanea, Jozef Fruček
Musiche Vassilis Mantzoukis
Scene e Costumi Paris Mexis
Disegno luci design Perikles Mathiellis
Sound design – Sound engineer Christos Parapagidis
Collaboratore scientifico Kostas Vrachnos
Testi a cura di Ioanna Nasiopoulou
Assistente scene e costumi Alegia Papageorgiou
Costruzione puntelli Ilianna Skoulaki
Video Blaec Cinematography
Trailer Albert Vidal / Vertex Comunicacio
Foto Elina Giounanli
Performers (in ordine alfabetico) Maria Bregianni, George Dereskos, Linda Kapetanea, Anastasis Karachanidis, Christos Strinopoulos, Alexandros Vardaxoglou
Produzione esecutiva Polyplanity Productions / Yolanda Markopoulou, Vicky Strataki
Assistente Nikos Haralampidis
Co-produzione Athens Epidaurus Festival / Grape- Greek agora of Performance, -RootlessRoot
Finanziato dal Ministero ellenico della Cultura e dello Sport
durata: 55’
applausi del pubblico: 4′ 30”
Visto a Genova, Teatro della Tosse, il 13 ottobre 2023
Anteprima nazionale