Come già vi abbiamo raccontato qualche tempo fa, Nicola Di Chio, Paola Di Mitri e Miriam Fieno si sono formati presso la Civica Accademia d’arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine e nel 2011 hanno fondato la compagnia La ballata dei Lenna.
Vincitore del Festival Anteprima89 nel 2012, “La protesta – Una fiaba italiana” è uno spettacolo nato da un percorso che ha coinvolto nel corso di un anno svariate persone: iniziato in collaborazione con la residenza teatrale di Teatro Minimo in Puglia, il progetto si è nutrito delle storie raccolte durante diversi laboratori tenuti dalla compagnia in giro per l’Italia.
In continua evoluzione grazie al contributo del pubblico e al costante confronto coi tempi, la performance riassume senza presunzione la situazione di crisi che molti italiani vivono oggi.
Licenziati da un centro informazioni cui nessuno più si rivolge se non con qualche sporadica telefonata, tra equivoci e racconti personali tre impiegati riflettono e agiscono nel tentativo di darsi un futuro, anche quando questo sembra impossibile.
“Papà, ma noi, il futuro, ce lo possiamo permettere?” è la domanda posta da un bambino al padre nell’aprile 2011, ed è il dubbio che aleggia per tutto il corso della performance.
Ben calata nei personaggi che mette in scena – la ragazza bulimica, quella che riempie le sue serate di uomini ogni volta diversi perché “meglio così che niente” e il giovane alcolizzato – La ballata dei Lenna cerca e offre un punto di vista tagliente sulla nostra contemporaneità. Forse un po’ carenti nell’uso del corpo, i tre attori mostrano abilità nello scandire il testo, e quasi mai la loro intensità interpretativa scade nel cliché.
Oltre allo spettacolo, la compagnia ha partecipato al festival con un workshop aperto a tutti, volto allo scambio culturale e artistico tra realtà differenti, “in modo da creare un raccoglitore di storie eterogenee, con l’intento di dare voce a una protesta vera, sintomo di un malessere diffuso che è difficile mettere su uno striscione: la protesta degli esseri umani”.
Un’aria completamente diversa si respira ridiscesi nel nuovo Spazio Ferramenta dopo una breve pausa per cambiare la scenografia.
Giorgia D’Agostino, Michele Guaraldo, Orlando Manfredi e Paola Raho portano in scena la storia dei Beatles in uno spettacolo costruito attraverso aneddoti e canzoni, filmati e racconti.
Diretto da Valentina Volpatto, questa performance-documentario intrattiene e commuove il pubblico per più di un’ora. Anche in questo caso è centrale la riflessione sulla contemporaneità: il Beat, il battito di una generazione che ha saputo scuotere gli anni Sessanta a livello non solo musicale ma anche politico, economico e sociale, dovrebbe tornare ad animarci nel periodo di crisi che stiamo vivendo.
Leggero e stuzzicante, “Beat: Beatles esistenze a tempo” alterna registri differenti, passando da momenti cabarettistici al canto, da testimonianze e squarci spesso drammatici del contesto storico a immagini teatrali create con simpatia. Il luogo dà un tocco in più all’esibizione, con quei mattoni rossi e l’atmosfera soffusa che facilmente accolgono una performance di questo tipo.
Ospite fino al 12 maggio delle serate del Circolo Oltrepo è invece la milanese Piccola Compagnia Dammacco, che propone al Fringe lo spettacolo con cui nel 2010 ha vinto il premio nazionale di drammaturgia Il centro del discorso.
“L’ultima notte di Antonio”, primo di tre spettacoli a formare “La Trilogia della Fine del Mondo”, mette in scena le voluttuose idiosincrasie di un cocainomane ormai giunto a uno stato di incontrollabile delirio.
La notte di Antonio non è mai l’ultima finché non viene la fine, cioè l’inizio dello spettacolo: il funerale, raccontato dalla donna che è rimasta con lui nel crescendo della sua dipendenza.
Gambe sghembe e microfono in mano. L’attrice Serena Balivo parla con voce sobria e profonda, non le servono grandi interpretazioni per cominciare il racconto del funerale d’Antonio, a partire dalle domande dei genitori su quella sua strana abitudine.
Poi, l’apparizione di Antonio dalla porta da cui prima era entrato il pubblico, ora stipato sulle panche in fondo alla stanza, in trappola davanti all’assito di legno su cui i due attori si muovono.
Antonio entra quasi fosse una visione dell’amata man mano che ne racconta la storia. Parla di dipendenza, necessità, urgenza. Di incubi e paranoie. L’atmosfera è onirica, sembra galleggiare su una scena vuota.
Gli attori indossano abiti di velluto dal taglio irregolare, dai colori intensi e opachi che ci portano alla mente un’epoca remota, forse mai esistita, quasi fossero personaggi di Tim Burton. Non comunicano che attraverso microfoni, strumento sintomatico della contemporaneità, e il contrasto che ne deriva, unito a quello tra i loro gesti lenti e improbabili e le turbolenze emotive di Antonio, tra i balzi improvvisi da un registro interpretativo comico-grottesco ad uno lirico-poetico, amplificano la dissociazione psichica e lo spaesamento del protagonista, denunciando il rovinoso inganno della tossicodipendenza.
Lo spettacolo è scenicamente ben studiato. Lo stesso Mariano Dammacco racconterà, durante il successivo incontro con il pubblico, della lunga gestazione del lavoro, frutto anche del contributo di diversi attori e del parere di qualche critico teatrale che ha assistito il progressivo sviluppo.
Ma dei tanti scrupoli artistici non arriva purtroppo che il riflesso.
La recitazione è meticolosa e molto misurata, ma le immagini non si fanno palpabili, la comunicazione a tratti tace. Dammacco usa toni e modi poco permeabili e presto diventa prevedibile. Serena Balivo è più insistente nella sua ricerca scenica, ma stenta a incidere nel qui e ora teatrale.
Intanto, tra un acquazzone e uno squarcio di sole, la prima edizione del Torino Fringe Festival va avanti, proponendo fino al 13 maggio un programma di performance e workshop dislocati in varie zone della città. Oltre agli spazi teatrali, anche esibizioni per le strade del centro e feste in locali.
Gli obiettivi dichiarati dagli organizzatori del festival sono essenzialmente due: “invadere” e avvolgere la città in un vivace clima artistico, e promuovere la cultura facilitando l’incontro coi produttori. Due compiti di certo non semplici.
Crab Teatro, Quinta Tinta, Piccola Compagnia della Magnolia, Il sommo e il sottraziono, Kataplixi Teatro, Saulo Lucci e Gianluigi Barberis, O.P.S – Officina Per la Scena sono le sette compagnie di riferimento per altrettanti spazi teatrali che ospitano le performance: Caffè del Progresso, Cecchi Point, Circolo Oltrepo, Circolo Rainbow, Magazzino sul Po, la zona teatrale del cimitero di San Pietro in Vincoli e lo Spazio Ferramenta.
A Torino, oltre quelle ‘di casa’, sono quindi arrivate compagnie da Roma, Napoli, Milano, Pisa, Catania, Cagliari, Aosta ma anche da Scozia, Inghilterra, Spagna e Francia, allargano il respiro del festival e cercando di inaugurare, anche a Torino, quella grande tradizione dell’off nata a Edimburgo nel 1947, e che lì è diventata una concreta occasione (seppur costosissima) di incontro tra realtà affermate ed emergenti.
Chi scrive non è nemico del Fringe festival., è un amico di molti artisti e ha speranza nella disperata Torino.
Fare un festival non è solo un insieme di spettacoli, anche bellissimi. Gli spettacoli sono in parte alcuni sotto la soglia della decenza, ma questo non è grave. Un festival è creazione di cultura. Deve venire fuori qualcos’altro. E le feste non bastano. Serve di più. Per ora la cultura del Fringe si sovrappone a culture già presenti a Torino, un certo movimento freak-alternativo ( riassumibile nell’immagine del Nilam) , l’andazzo teatral circense à là scuola di teatro fisico, un certo mondo artistico “piccolo”. Quindi, caro Fringe, se vuoi andare avanti devi 1) gli artisti devono essere pagati, e non solo con gli incassi ( sappiamo tutti che l’iniziativa è stata sostenuta dal Comune perché non gli costa nulla) 2)creare un identità e quello che non c’è a Torino cioè UN NUCLEO DI CREAZIONE. Ce la farai, Fringe? io non credo, ma spero nel contrario. Omar Missini