Da una lampadina sporca, illuminata mediante un generatore di corrente universale, alle «tette finte che sono come i nazisti»: così può essere sintetizzato al massimo il viaggio esplorativo intorno e dentro il paesaggio dell’anima di Francesca Pennini. Una circumnavigazione esplorativa e notturna, fluorescente e con pochissima luce a disposizione, ma anche una metafora reloaded sulle biforcazioni della vita, sul teatro e sulla danza senza giustificazione, sull’amore che muove ogni cosa con la sua casualità.
Parlare con Francesca Pennini in un certo senso è come intuire, percepire il fascino lepidottero e incredibile di una falena, carpire il segreto e la rotta di un volo di un percorso professionale e artistico nel quale è coinvolta in prima persona come danzatrice, coreografa, regista e direttrice artistica di CollettivO CineticO. Fino ad oggi, fino a “Manifesto Cannibale“, l’ultima creazione che ha debuttato a Roma, al Teatro Vascello, nell’ambito di Romaeuropa Festival, e che la redazione di Klp ha scelto fra i 10 spettacoli in finale in questi giorni per il Last Seen 2021.
Amore, attenzione e autoconsapevolezza sono le tre “a”, i primi di una composita tavola degli elementi che caratterizzano la ricerca, gli esperimenti recenti, il risultato finale di un flusso, di un moto cinetico che si manifesta come un’indagine aperta intorno al dinamismo e all’immobilismo, agli esercizi di “pornografia vegetale”. La fame, il “cannibalismo” – inteso nel senso più ampio del termine – altro non sono che il paradigma tra performance e realtà, tra ansia e stanchezza, tra lamento e soddisfazione.
E forse, come sosteneva Emil Cioran, ne “L’inconveniente di essere nati”, «Talvolta si vorrebbe essere cannibali, non tanto per il piacere di divorare il tale o il talaltro, quanto per quello di vomitarlo».
«La vita era esattamente così, una lampadina sporca appesa a una fune elettrica, il cui unico generatore di corrente è l’amore» (Margaret Mazzantini). Chi o che cosa è il tuo generatore di corrente?
Penso che la Mazzantini abbia ragione, l’amore è un motore fondamentale. Per me lo è molto per la creazione e, soprattutto, per l’attività performativa. Penso che un altro motore della creazione sia la conoscenza, di solito mi attrae un ambito, una possibilità di cui non so molto. Mi incuriosisce l’idea di vedere una reazione chimica tra dei fenomeni che non ho mai pensato conciliabili o compatibili tra di loro, dei campi semantici o certe messe in condizione del corpo, dello sguardo. E quindi è una curiosità quasi da ricerca scientifica, è l’eccitazione che può dare la scoperta, non soltanto legata all’invenzione, ma anche la conoscenza di qualcosa che esiste e che io non conosco, per cui è un progetto nuovo per me.
È una grandissima occasione di conoscenza di persone, di immersione nelle persone. Il momento di creazione a tavolino è legato a quella pulsione; il lavoro in sala e quello in performance sul palco penso che siano mossi principalmente dall’amore.
È un dispiegarsi di esperienze da condividere con persone con le quali si crea un legame profondissimo che diviene il motivatore di quelle pratiche artistiche.
Per “Manifesto Cannibale”, per esempio, è stato così; abbiamo fatto tantissimi esperimenti che per me sono memorabili e che lo spettacolo non vede in scena, ma sono serviti a creare uno spessore di esperienza personale. È l’amore per i miei collaboratori a muovermi nell’inventare esperimenti sempre più particolari da fare assieme. L’amore per gli spettatori è quello che mi muove andando in scena perché è un incontro potenziato e disarmato. Come qualsiasi atto di amore e di cura, non è sempre nella soluzione più facile o comoda che esso si manifesta.
Sono rientrata da poco dalla prima sessione per una nuova creazione a Malta. Parlavamo dell’intensità di un rito performativo fatto durante le prove della sera prima, e uno dei danzatori mi ha chiesto come è possibile innescare la stessa reazione empatica di commozione e trasporto avvenuta nei confronti di una danzatrice della compagnia anche con gli spettatori. Voleva sapere se alcuni dispositivi di interazione con il pubblico tipici del lavoro di CollettivO CineticO servono proprio a quello (ad esempio la “mating season” di Sylphidarium in cui il pubblico si presenta a teatro con un dresscode che gli permette di conoscere altri spettatori). Credo che la sua domanda, ridotta all’essenza, fosse questa: è possibile amare uno sconosciuto? Mi sono resa conto che andare in scena, fondamentalmente, è proprio questo: amare, ogni sera, degli sconosciuti.
“Manifesto Cannibale” termina, nella sua prima parte, con un’ombra, una sagoma fluo. Di che colore e come sono le radiazioni dell’anima?
“Manifesto Cannibale” ha soltanto luci bianche e buio. Buio e luce al grado zero. Quell’unica eccezione, quelle luci colorate a me suonano un po’ come un’allucinazione, infatti sono delle luci fuori scena. Mi dà l’idea che siano sostanzialmente dei colori soggettivi, non contemplati dallo spettacolo, e che a vederli, a scomporli sia unicamente lo spettatore.
Mi piace molto il principio per cui la luce bianca c’è perché contiene tutti i colori; è una questione di filtro, di selezione, di riduzione. Il vedere apparire un colore o un altro è nello sguardo di chi li percepisce, tant’è che due persone possono vederli diversamente. Chissà come avrebbe visto i colori dello spettacolo un insetto o un animale, chissà come li ha visti ogni spettatore.
È sempre un mistero e, forse sì, mi piace pensare che il colore dell’anima sia sempre fatto di buio e di luce bianca che, di volta in volta, viene interpretata come un colore diverso, ma è solo un’interpretazione, un filtro.
Rilancio con una domanda su chissà quanta luce passa dentro al corpo, fino a dove arriva, quanto siamo trasparenti? In questo senso, se l’anima è qualcosa all’interno di noi, quanto di essa viene illuminata? Se non c’è la luce, non esiste nemmeno il colore che è soltanto una possibilità chimica.
Finisco con un segreto cromatico. In una delle fasi di “Manifesto Cannibale”, più di un anno fa, doveva esserci, ad un certo punto, una frattura del lavoro per cui tutta la prima parte era in bianco e nero e poi arrivavano degli ultracorpi, quelli che io chiamavo i “tamarri”, vestiti di viola. Mi piaceva moltissimo quel colore come sintesi cromatica di “Manifesto Cannibale” proprio perché l’ultravioletto è in cima allo spettro luminoso e veniva utilizzato insieme a delle luci infrarosse.
Volevo giocare con un doppio spettro: la luce bianca e delle luci invisibili, ultravioletti e infrarossi, tanto quanto i suoni possono stare sopra e sotto allo spettro. Avevamo registrato alcuni suoni molto bassi e abbiamo lavorato sul silenzio.
La luce ultravioletta e la luce infrarossa sono un’altra forma di buio. Forse le radiazioni dell’anima sono fuori dallo spettro visibile e possono, come le luci infrarosse, macchiare la pelle, scaldare le ossa, curare le infiammazioni o provocare tumori. Insomma possono essere molto potenti le radiazioni dell’anima, pur rimanendo segrete.
La tua fragilità è anche la tua forza?
La mia fragilità è un partner con cui sono costantemente in lotta, è una fragilità molto potente che mi fa sempre sentire di non poter avere una vita normale, anche se il termine “normale” non ha alcun senso. Ce l’ha, però, dentro di me, come sensazione soggettiva. Penso che l’atto di coraggio sia, per me, il sentirmi molto vulnerabile, molto fragile, molto fallibile e, allo stesso tempo, molto coraggiosa.
Non mi sento forte, non penso di esserlo, però, mi sento molto coraggiosa, anche se so che la mia fragilità spesso è, crudelmente, una risorsa. Credo che in scena sia fondamentale saper maneggiare la propria fragilità, non negarla, non contrastarla ma saperla modellare, farla brillare in alcuni casi. Spesso è proprio questa la vibrazione dell’andare in scena: l’offrirsi senza armatura, senza vestiti, senza trucco, essere una preda. Io sono in generale una persona ben disposta verso l’Altro per cui mi piace l’idea di affidarmi completamente, senza riserve, allo sguardo dello spettatore e so che ogni volta ho la possibilità di uscirne ferita a morte.
Essere fluorescenti come le meduse o le sirene significa funzionare come un fascio di luce per esplorare certe profondità oppure, più semplicemente, per proteggersi dal buio?
Mi sembrano dei fenomeni molto affascinanti, in particolare la fosforescenza o comunque la capacità di trattenere, di restituire in modo improbabile le radiazioni luminose: è come se fosse una specie di linguaggio segreto, dedicato solo ad alcuni occhi, un linguaggio di trasformazione. In passato ero molto affezionata alla fosforescenza. Mi dà l’idea di qualcosa che ha a che fare con il futuro, una proiezione nel futuro ed è anche un po’ come vedere la luce di una stella che è già morta, noi vediamo solo la sua luce immagazzinata prima e che viene restituita dopo, non con effetto immediato.
E quindi ha questa fratellanza con la veggenza, secondo me. Forse uno spettacolo ha proprio questa caratteristica di fluorescenza o fosforescenza, cioè una restituzione anomala di quello che è, perché si negozia in un linguaggio segreto con l’immagine che ha ciascun spettatore, ma anche perché cede la sua luce piano piano.
In particolare penso che “Manifesto Cannibale” vada assorbito nei giorni successivi, perché continua ad emettere radiazioni dopo averlo visto, ha questo decadimento a lungo termine.
Per quanto riguarda il proteggersi dal buio, io non penso che il buio sia qualcosa da cui proteggersi; penso che il buio sia bellissimo e che ci si debba proteggere dalla luce in generale, dalla luce del sole. Non dovremmo proteggerci dal buio con la luce.
Dovremmo farlo veramente nella quotidianità, limitando molto di più l’uso delle luci artificiali, ci farebbe meglio seguire il ritmo della luce naturale, gestirci nel buio.
E poi il buio è uno spazio incredibile di possibilità, di apertura maggiore dei sensi, di grande ricettività. È come spalancare tutto: gli occhi, le orecchie, le pupille. È lo spazio dentro il quale possiamo immaginare, per cui credo sia veramente una risorsa un po’ mal giudicata.
Spesso è lo spazio dell’accoglienza, è vero le palpebre si chiudono, però gli occhi, le pupille si aprono al buio e il corpo perde parte dei suoi confini. È lo spazio del dettaglio, dell’immobilità. È come “Manifesto Cannibale” dove si guardano dei corpi immobili, come guardare una luce scura. Lo stesso sole nero che abbiamo appeso in scena per me è un’illuminazione di buio. Mi piacerebbe poter avere una torcia che possa creare una fascia di buio con cui coprire le cose. È come ribaltare il negativo: immaginare che il silenzio possa essere qualcosa che si alza in volume, è come coprire il rumore col silenzio. Per me funziona un po’ nello stesso modo.
Uscire fuori dagli schemi nella danza, nel teatro, così come nella vita: cosa c’è fuori, cosa hai trovato?
Trovi sempre nuovi schemi ogni volta che ne abbandoni uno. Appena se ne mette a fuoco uno che era invisibile, si comincia a brancolare perché ci si ritrova in un nuovo schema, altrettanto invisibile e che a sua volta, quando diventerà visibile, potrà forse essere rotto. Non penso di rompere gli schemi, ma penso di giocarci spesso e quindi, in realtà, di renderli visibili.
È quello che succede con il formato di uno spettacolo dove ci si sposta fuori dalle regole: queste continuano ad essere presenti, ma vengono costantemente boicottate.
Che cosa ho trovato? Altre regole, un grande desiderio di libertà che passa attraverso la consapevolezza. Il teatro è un modellino di mondo, di pensiero che vuole suggerire delle possibilità per affrontare, per godere, per sfidare la quotidianità. I parametri che possono essere messi in gioco sono simili: lo spazio, il tempo, il corpo, le relazioni insomma i fondamentali dell’essere in vita. Ogni volta ho trovato delle cose diverse, ma non saprei sintetizzarle perché mi sembra di non essere arrivata da nessuna parte. Al tempo stesso l’intensità di alcune esperienze sul palcoscenico, per il palcoscenico, e della mia vita sono cose talmente grandi che vorrei poterle raccontare.
Posso dire una cosa, che probabilmente esce dalla domanda. In questo anno ho abbandonando completamente il teatro per un po’, per la prima volta ormai da tanti anni. Senza lavorare, ho trovato il teatro dove non l’avevo mai veramente cercato, dove sentivo che erano gli spazi del fuori. Ho scoperto che volevo che avesse quella natura del fuori, di incontro anche accidentale e non lavorativo, dove non c’è nessun professionismo a proteggerti e a giustificarti nel fare tutto questo.
La rottura degli schemi non è solo nel boicottare determinati formati teatrali e spostare, invitare lo spettatore ad uscirne, è farlo nella quotidianità, anche attraverso la danza. È il teatro che non si presenta mai come tale e, quindi, che non si giustifica.
Questo per me è uno degli strumenti più divertenti che il teatro può dare per la vita. Il termine divertente lo intendo proprio in senso etimologico: che diverte, cioè che sposta da una via principale. Le rotture degli schemi, mi viene da dire, non sono altro che divertimenti, forse, ovvero biforcazioni, altre rotte che si prendono e che sono divertenti proprio per questo.
«Nessuno danza sobrio, a meno che non sia completamente matto», recita una citazione attribuita a Cicerone. Che ne pensi?
Per rispondere a questa domanda ho cercato la citazione di Cicerone su internet, e nel primo blog che ho trovato ce n’erano delle altre; fra tutte, quella che mi sembra significativa da citare è una di Euphegenia Doubtfire: “Le tette finte sono come i nazisti: non ridono, non danzano, sono sempre solo dure e sull’attenti”. E poi un’altra di Paul Valery: “Pensavo che i piedi del danzatore sapessero solo disegnare, vedo che sanno anche pensare a scrivere”.
Un po’ ha a che fare con l’aspetto razionale o dionisiaco della danza, io non sono molto dogmatica, penso che danzare non sia una cosa soltanto e non si faccia in un solo modo, mi è molto difficile aderire ad un assioma di questo tipo. Credo fortemente nel fascino della trascendenza della danza, del movimento e della danza, del suo valore di “mostrificazione”. Qualcosa che mette a nudo e che racconta necessariamente il vero. È quello che succede ai matti, agli ubriachi, penso che la verità, la danza e la libertà siano molto correlate. Al tempo stesso è anche interessante vedere persone che mentono danzando. Io non penso che il corpo non possa mentire.
Ci sono danzatori molto sobri e delle danze di bugie. Si danza spesso in un contesto che giustifica la danza stessa: una festa, una discoteca, grazie anche all’uso dell’alcol che innesca la libertà del corpo. Per contro, è incredibile il senso di libertà che restituisce la danza conquistata senza un aiuto lisergico.
Mi viene in mente “Ballroaming”, una nostra performance che facciamo con chiunque vuole aderire. Attraversiamo degli spazi urbani come in una sorta di silent disco, tutti con la stessa traccia musicale nelle cuffie, mentre fuori c’è il silenzio e le persone indossano delle maschere confezionate in proprio.
A me piace molto danzare senza giustificazione negli spazi urbani, perché sono una cornice interessante. Senza nessuna protezione, nemmeno quella del corpo da danzatore perché anche il virtuosismo stesso diventa una protezione.
Senza trasmettere il messaggio di possedere un linguaggio specifico, una formazione, un corpo preparato. Trovo invece interessante stare fuori da quella dimensione, è molto liberatorio, è un altro modo per uscire da quegli schemi dai piccoli dettagli di contratti sociali. Le persone si preoccupano quando vedono qualcuno muoversi in modo “anomalo” per un contesto, nessun movimento è anomalo in sé.
È preoccupante il fuori-contesto, non soltanto nella danza. Mettere il corpo in una condizione non catalogata è qualcosa vicino alla follia, vicino all’effetto dell’alcol. È la sorella di quei fenomeni, ma non li innesca.
Francesca Pennini artista: cosa hai lasciato andare, cosa hai perdonato a te stessa e cosa è rimasto ancora in sospensione?
Francesca Pennini, artista e persona, non perdona praticamente niente a sé stessa. Penso di aver lasciato andare molte certezze nell’ultimo anno, di aver camminato in situazioni che, con un po’ di presunzione, credevo fossero sbagliate, di essermi accorta che fossero pregiudizi, e quindi penso di aver imparato a lasciarmi sorprendere di più dall’inaspettato, dalla tolleranza dell’inaspettato e dell’errore. Dentro ci me c’è un grande attrito che lavora tra il controllo e la randomness più totale, l’entropia, il caos. La frizione tra la volontà di controllare ogni cosa e, al tempo stesso, di metterlo completamente in pericolo, di lasciarlo reagire al caso, all’evento, alla verticalità di ciò che accade e che non può essere previsto.
Non prepararsi è stato, ultimamente, il mio mantra personale. Non prepararsi nel senso di non prevedere, di non prevenire, di non anticipare per non manipolare il futuro con l’aspettativa e con il pregiudizio. Affidarsi al fatto di saper reagire alle cose in diretta senza essere equipaggiati, ma stando pronti. Essere impreparati è un esercizio molto difficile, molto bello. Ho lasciato andare la preparazione e ho trovato l’impreparazione. Devo trovare ancora tante cose però penso che un senso di ordine non ci sarà mai e, forse, sarebbe una condanna.
Il grande esercizio di quest’anno è stato quello di accettare la fallibilità totale del corpo. Pensavo di non potermi permettere, a livello lavorativo, di non poter fare qualcosa o di dover ridurre l’attività, di non potermi fermare senza rovinare tutto. E invece ho scoperto che non era così. Ho trovato anche una grande accoglienza da parte di tanti collaboratori e operatori teatrali, interlocutori con cui prima avevo un rapporto sempre esclusivamente professionale. Quest’anno è stata l’occasione per trasformarlo in un rapporto umano ed è stato bellissimo. Le due parti si sono mescolate e adesso si nutrono profondamente l’una dell’altra. Era qualcosa che forse non mi sarei mai concessa se non fossi stata costretta a farlo per i problemi di salute che ho avuto. La risposta è stato il grande amore che ho ricevuto e di cui ne sono molto grata. La risposta che mi ha dato questo difficile mondo del teatro è stata invece di grande accoglienza, di amore. E ne sono profondamente grata.