Ci siamo quindi tutti “buttati” in questo esperimento pilota rivolto alla formazione di un nuovo e giovane pubblico, per cercare di avvicinare anche gli adolescenti al linguaggio della danza contemporanea. I ragazzi o, meglio, le ragazze (visto che questa prima edizione ha visto avvicinarsi solo ragazze) hanno avuto la possibilità di vedere gratuitamente gli spettacoli che più destavano in loro curiosità, e poi di provare a scriverne, uscendo dalle logiche scolastiche e anche da quelle strettamente ‘critiche’, cercando semmai di far emergere le sensazioni, con lo scopo di farci vedere con i loro occhi cosa la danza contemporanea – linguaggio pressoché sconosciuto agli adolescenti – può trasmettere.
Vi lasciamo quindi al racconto a quattro mani di due di loro, Elena Rastello e Chiara Dabbene, 17enni alle prese in questi giorni con gli imminenti esami di maturità (“queste per noi sono settimane di fuoco!”), che ci hanno raccontato gli spettacoli che più le hanno colpite: testimonianza di un primo – e ci auguriamo non ultimo – avvicinamento dalla danza contemporanea.
Abbiamo voluto arricchire il racconto con una conclusione ‘per immagini’, grazie alla photogallery realizzata durante il festival da Andrea Macchia, che ne ripercorre tutta la prima parte. Domani infatti Interplay riparte per la seconda parte con “Add up/Barriera senza confini”, performance itinerante nel quartiere di Barriera di Milano, dalle 17.30 a sera, esito di un workshop con gli abitanti del quartiere.[Daniela Arcudi]
Che cos’è la danza?
Un rituale che risale alla notte dei tempi, un’energia sottesa all’uomo che, liberandosi, dà vita a qualcosa di incredibile. I corpi non sono più corpi ma forme, simboli, manifestazioni di qualcosa che ci appartiene, ci è sempre appartenuto, solo che non lo sapevamo. O non lo sapevamo esprimere.
Sedendoci tra gli spalti, la sera del 24 maggio (in scena “Hay un no sé que no sé donde” di Elisabetta Lauro & César Cuenca Torres, e a seguire “Folk-s” di Alessandro Sciarroni) abbiamo compreso come, grazie a movimenti apparentemente semplici, fosse possibile condensare in pochi minuti una commistione densissima di significati, capaci di toccare corde così intime e profonde da rendere impossibile la definizione di un’interpretazione univoca di uno spettacolo.
Quello che “Hay un no sé que no sé donde” ha raccontato a noi, è la semplicità e la complessità di una storia d’amore.
Il pubblico, dopo gli iniziali colpetti di tosse che risuonavano protagonisti nel silenzio del teatro, dai primi bagliori e movimenti si è ritrovato coinvolto e immerso in un’atmosfera simile a quella che si immagina all’interno di un corpo umano. L’embrione di qualcosa che si forma, lentamente, fino all’esplosione in una frenesia simile a una ricerca (forse un corteggiamento?), interrotta bruscamente da un silenzio, caduto come un macigno sulla scena. Silenzio. Tutto quello che si può sentire sono i respiri dei ballerini e i fruscii dei loro corpi, come alla fine di una battaglia.
Ma ecco che allora prende vita una relazione, in un alternarsi di fusione, distacco, simbiosi e protezione; sul palco, così come nella vita, due persone si muovono ora simmetricamente, ora in opposizione, abbandonandosi all’altro o offrendo un sostegno, ritrovando grazie al contatto lo slancio per un nuovo gesto.
E ancora una nuova frenesia, in un delirio simile ad una disperazione: un cadere, rialzarsi e cadere ancora, tra gesti che è facile sentire propri, fino a un nuovo silenzio, questa volta non abbastanza pesante da fermare i corpi che continuano a muoversi, instancabili, sul palcoscenico della vita, almeno fino a quando non viene il momento di fermarsi, riprendere fiato e risvegliarsi, in un’atmosfera nuova e quasi magica, nell’armonia imperturbabile di chi ha superato una tempesta uscendone più forte di prima.
Il 29 maggio, invece, in un’atmosfera resa ancora più suggestiva dall’alternarsi di nuvole e squarci di cielo, siamo rimaste catturate da uno spettacolo decisamente insolito, che ha scardinato le nostre certezze su più fronti.
Con quello che la compagnia francese Beau Geste ha proposto all’esterno delle Fonderie Limone (“Transports exceptionnels”) c’è un nuovo rapporto tra palcoscenico e pubblico: un modo inedito di concepire la danza.
Il ballerino, a piedi nudi, si fa strada tra il pubblico in un frammento di prato, e inizia la sua singolare danza con un oggetto che difficilmente assoceremmo ad un qualunque ambito artistico: un’escavatrice.
La strana coppia, sulle note di una musica lirica e straziante, si insegue reciprocamente in una sintonia così perfetta da rendere naturale la danza persino per una macchina abituata a scavare e distruggere. Come due innamorati, gli opposti sulla scena si sostengono a vicenda, in un rapporto di reciproca fiducia, in cui ognuno attinge dall’altro ciò di cui manca: la macchina acquista la leggerezza di un ballerino, l’uomo si sporca la camicia con la terra e diventa parte della macchina. Questa fiducia, però, si rivelerà ben presto precaria: in un inaspettato slancio vitale l’escavatrice infatti si ribellerà, rivelando la freddezza spietata che la riporterà alla dimensione materiale a cui appartiene.
Il rapporto tra uomo e macchina si mostra dunque in tutte le sue ambiguità e contraddizioni, attraverso un linguaggio che non ci saremmo aspettate capace di veicolare messaggi tanto profondi e complessi.
Quello che questa esperienza con Interplay ci ha lasciato è uno sguardo più ampio sull’universo della danza, che abbiamo scoperto essere un efficace tramite e un’opportunità espressiva da non sottovalutare.