I 18 anni di Pinocchio. Intervista a Giandomenico Cupaiuolo: “Ormai fa parte della mia vita”

Pinocchio (ph: Filippo Brancoli Pantera)
Pinocchio (ph: Filippo Brancoli Pantera)

Teatro del Carretto in viaggio verso i 200 anni dalla nascita di Collodi

In un tempo in cui gli spettacoli faticano a esistere più di una stagione e, nel caso di compagnie indipendenti, anche solo a trovare repliche, “Pinocchio” del Teatro del Carretto, nato diciotto anni fa, gode di ottima salute: continua a riempire le sale di pubblico e di meraviglia, com’è accaduto lo scorso dicembre al Teatro Astra di Torino nell’ambito di una ricca stagione dedicata ai Fantasmi, ossia a quelle “verità che crediamo di conoscere e invece ci sfuggono”, come ha spiegato Andrea De Rosa, direttore artistico della Fondazione TPE.
Si tratta di un caso indubbiamente più unico che raro, di cui abbiamo voluto parlare con Giandomenico Cupaiuolo, che in questo spettacolo interpreta Pinocchio.

Lo interpreti fin dall’inizio, vero?
Sì, lo spettacolo fondamentalmente è stato scritto su di me. A dire il vero, per circa otto anni è rimasto fermo, poi alcuni eventi hanno contribuito a riportarlo in auge, a cominciare da Antonio Latella che lo volle alla Biennale Teatro di Venezia, quando ne fu direttore. In quell’occasione Latella invitò Maria Grazia Cipriani (fondatrice del Teatro del Carretto insieme a Graziano Gregori) a presentare una trilogia di spettacoli storici della compagnia, tra cui proprio “Pinocchio” (che lo interessava e di cui lui stesso realizzò più tardi una versione con il Piccolo Teatro di Milano).
Proprio questa mattina, durante una riunione di compagnia, riflettevamo sul fatto che oggi uno spettacolo anche bello – come dici tu – non esiste più di una stagione e, invece, “Pinocchio” ha la fortuna di durare ancora, lo porteremo in giro l’anno prossimo, poi ci sarà l’estero… e noi siamo felici di questo. La maggior parte della compagnia è la stessa di diciotto anni fa.

Qual è, secondo te, l’elemento che ha reso tutto, anche in teatro, meno duraturo?
Il fatto che oggi non esista più il repertorio è strettamente legato alla politica, da cui il teatro naturalmente dipende. “Pinocchio” è uno spettacolo nato in un periodo in cui il teatro italiano godeva ancora dei finanziamenti giusti per poter svolgere quattro mesi di prove, perché questo è uno spettacolo di quattro mesi di prove, e lo si vede. Oltretutto è uno spettacolo di una compagnia privata, indipendente, che non ha alle spalle un Teatro Stabile. Oggi una nuova produzione la si realizza in venti giorni; uno spettacolo come “Pinocchio” non potrebbe più esistere, non così come lo hai visto tu, uno spettacolo di alto artigianato che ha ovviamente un costo. I costumi, le scene, le luci hanno bisogno di un supporto economico non indifferente. Oggi le nuove produzioni, se vogliono essere indipendenti – io stesso faccio nuove produzioni -, non hanno più la possibilità di fare cose del genere.

Ed è un peccato, perché uno spettacolo teatrale, in quanto opera d’arte viva, se ha la possibilità di esistere a lungo, diventa ancora più interessante. A differenza di un dipinto, che sopravvive nei secoli senza sostanziali cambiamenti (se non forse nella percezione di chi lo osserva), uno spettacolo – come un corpo che nel tempo matura – può acquisire nuove consapevolezze, forse anche nuove cicatrici. È così anche per te?
Io lo vivo sempre come un viaggio interiore, un esercizio di analisi. Ogni volta che vado in scena con “Pinocchio”, chiudo gli occhi e mi dico: “Fatti il viaggio, Giandomenico. Racconta quello che sei adesso”.
Pinocchio, ormai, fa parte della mia vita. Ho debuttato che avevo 26 anni e adesso ne ho 44, è passata una vita, sono successe tante cose nel frattempo, tante sofferenze, anche tante cose belle. E anche il mio Pinocchio è cambiato. All’inizio era un Pinocchio più muscolare, fisicamente avevo un’altra attitudine rispetto ad adesso: ero un giovane attore che voleva mangiarsi la vita, mordersela. Ora c’è più pensiero e me lo godo di più, è indubbiamente più profondo.
D’altronde “Pinocchio” è un testo che tutti conoscono, semplice ma allo stesso tempo profondo, che ti porta a riconoscere come e quanto il percorso di una vita, il diventare uomo o donna, dipenda dalle sofferenze che vivi e che attraversi.

Siamo tutti un po’ Pinocchio, intendi dire?
Siamo tutti Pinocchio! Anzi, ti dirò che, diversamente da quanto trapela nella leggenda popolare, Pinocchio, secondo me, è un personaggio molto coraggioso, non scappa dai suoi compiti, ma ha voglia di scoprire nuove cose ed è sempre alla ricerca di qualcosa di profondo, probabilmente di un amore, un amore grande, che non è solo giustificabile con l’assenza del padre o con la presenza altalenante della fata. Nel momento in cui inizia a trovarsi a suo agio nelle situazioni, Pinocchio va via perché è alla ricerca di qualcosa di molto più grande di quello che siamo noi.

Apprezzo il fatto che in questo spettacolo non si indugi sul tema della menzogna…
No, non ci interessa

Vi interessano, invece, i personaggi e le relazioni. Penso a quella di Pinocchio con Lucignolo. C’è una scena – quella in cui Lucignolo muore – in cui il gioco della finzione per un attimo sembra lasciare spazio a un sentimento realistico, a una verità profonda. Chi è Lucignolo?
Lucignolo è una parte di Pinocchio. Non è un caso che il primo incontro con Lucignolo, Pinocchio lo faccia parlando a un personaggio immaginario, da solo di fronte alla platea, come se fosse davanti a uno specchio. Quando muore Lucignolo, alla fine dello spettacolo, muore una parte di Pinocchio. Il mio pianto (mi interessa quando tu dici “realistico”), quel pianto lì, è il pianto di Giandomenico, dell’uomo, non è più il pianto del burattino.
Anche dal punto di vista della scrittura del personaggio, per Pinocchio ho utilizzato una voce, un falsetto, che poco alla volta abbandono durante lo spettacolo. A volte l’abbandono per poco, poi lo riprendo (è anche un gioco teatrale), però piano piano va trasformandosi e diventa la voce mia. Quel pianto è il pianto mio, dell’uomo Giandomenico, incastrato, come in un carillon, nella forma di Pinocchio, che ha vissuto e rivivrà ancora.

ph: Filippo Brancoli Pantera
ph: Filippo Brancoli Pantera

Passiamo alla fata (magistralmente interpretata da Elsa Bossi), ma potrei dire anche alle fate, perché c’è la fata bambina, la fata vecchia, ma è anche amante, sorella, madre… Che cosa rappresenta per Pinocchio?
Il percorso che Pinocchio intraprende lo intraprende grazie alla fata. La fata funge un po’ da chiave di violino al racconto di Pinocchio. Nei momenti cruciali della sua vita, c’è la fata, nel suo essere accogliente, punitiva, amante, pedante, bambina, presente anche nella sua assenza, quando muore. È quella figura che tutti noi abbiamo, che compare o ricompare nei momenti fondamentali della nostra vita. Pinocchio ne è consapevole, anche quando finge di voler rimanere con lei, ma poi dice: “No, io devo andare via, andare oltre quello che già conosco”.

Alla ricerca del padre? In questo spettacolo Geppetto non compare mai.
E questa è l’intuizione grande dello spettacolo. Siamo partiti proprio da questo, dall’assenza del padre. Un’assenza così profonda, così piena, che diventa una presenza. Per tutto lo spettacolo, dalla prima all’ultima battuta, io sono alla ricerca di mio padre. Quello è il mio vuoto da riempire.

Un vuoto a cui tu nel tempo hai assegnato, immagino, un valore diverso?
Esattamente. Non ti nascondo che, quando l’anno scorso abbiamo ripreso lo spettacolo, stavo attraversando un momento molto complicato della mia vita privata: avevo perso un amore. In quel Pinocchio che debuttò a Roma, c’era tanto di quell’assenza, di quel vuoto, di quel trauma.
A differenza degli altri spettacoli che faccio, “Pinocchio” fa sì che io reciti quello che sto vivendo qui e ora. Non è solo rappresentazione, passa attraverso l’onirico, il sogno, il desiderio, anche l’incubo.
Questo è un momento della mia vita in cui rifuggo un po’ la rappresentazione nel teatro, mi piace la non-rappresentazione, mi interessa raccontare di me attraverso i personaggi che racconto. Per esempio, io ed Elsa Bossi ogni tanto usciamo dai nostri personaggi, li giudichiamo, ci ridiamo su, li guardiamo con affetto. Mi piace l’idea di dire chiaramente al pubblico che io sono un attore che sta recitando un ruolo.

Hai citato il pubblico. È cambiato nel corso degli anni? È diversa la sua risposta oggi rispetto a com’era diciotto anni fa?
Il pubblico è oggi composto da molti giovani che hanno sentito parlare dello spettacolo e da chi torna dopo tanti anni perché vuole rivederlo.
Quando nacque, “Pinocchio” fu recensito da molti, anche bene, ma con una certa superficialità, tant’è vero che in Italia questo spettacolo non ha mai ricevuto un premio, ne ha vinti però all’estero. Adesso vive un po’ del mito che gli si è creato attorno, è considerato uno spettacolo iconico del Teatro del Carretto, e sono venuti a rivederlo anche i critici vecchi, che ne hanno poi riscritto. A me interessa comunque più il pubblico che la critica. Mi piace molto ci siano tanti giovani.

Ho letto le recensioni dello spettacolo e quasi tutte concordano nel definirlo “visionario”. Mi sono chiesta cosa contribuisca a renderlo tale, e credo abbia a che fare con la dimensione del tempo e dello spazio: una linea temporale bizzarra, che anticipa e poi fa retromarcia, ora dilatata, ora concentrata, ora sospesa; un luogo che è l’arena di un circo ma diventa anche casa e poi prigione, a seconda del gioco di suoni e luci.
E’ stato fatto uno straordinario lavoro di scomposizione e ricomposizione del testo di Collodi, intervenendo in maniera originale sia sul tempo della narrazione che su quello della storia.
Esattamente. E ci è voluto tanto tempo per questo. Questi rimandi temporali e spaziali, che tu giustamente hai colto, hanno avuto bisogno di quattro mesi di ragionamenti e di prove lunghissime. Quattro mesi per dare il tempo a Maria Grazia di sbagliare, cancellare, recuperare, e a noi di capire con il cuore e con la testa tutti i vari passaggi temporali, di capire che, per esempio, bastava quella pallina sbattuta a terra dal domatore per evocare il battito del cuore di Lucignolo: PUM PUM…
Alla fine delle prove di Pinocchio, io ero un fascio di nervi, pesavo 62 kg, distrutto, stremato. L’alto artigianato richiede tempo.

E molta cura, che è evidente nella ricercatezza di gesti e movimenti. Penso per esempio alla Lumaca, il cui tempo fa da contrappunto al tuo recitare concitato.
Ci sono volute, alla lumaca, settimane di lavoro per arrivare a quella qualità di movimento e di ironia. Noi abbiamo tutti cura di questo spettacolo.
All’ultima replica del Teatro Astra è venuto Arturo Brachetti, era con te in sala, è venuto a trovarmi in camerino e ci siamo messi a parlare. Era entusiasta e affascinato dalla qualità artistica dello spettacolo, delle azioni sceniche, come quando Pinocchio porta avanti e indietro i bicchieri, e il latte versato è a ogni tratta di più, perché non riesco più a gestire quel lavoro. Quel latte versato, che di volta in volta aumenta, è frutto di un processo emotivo, intimo, ragionato, pensato, di cui io quasi non mi accorgo più, tanto ho interiorizzato Pinocchio, ma nulla è casuale in questo spettacolo.

Favolosi, nel senso letterale della parola, sono i costumi, le maschere, la scenografia, che indubbiamente hanno richiesto anch’essi tempo per essere concepiti, realizzati e utilizzati.
Puoi immaginare le giornate, le settimane intere per capire come recitare con quelle maschere… Vedi, questo è uno spettacolo visionario anche perché è di forte impatto visivo. Graziano Gregori ha svolto un lavoro certosino, pieno di rimandi. Lo stesso Pinocchio appare in scala. Nel momento in cui vengo impiccato, il domatore entra con un piccolo Pinocchio in legno che sbatte contro la parete. Particolari che fanno sì che nasca il desiderio di rivedere lo spettacolo. Rimandi e citazioni continue. Io stesso cito Carmelo Bene, Renato Rascel, Charlie Chaplin. Nel momento in cui Pinocchio compare con una giacca piena di campanelli, prima di diventare asino, faccio un balletto che è quello di “Totò a colori”.

L'addestramento (ph: Filippo Brancoli Pantera)
L’addestramento (ph: Filippo Brancoli Pantera)

Ci sono tante sfumature in questo spettacolo: quella malinconica, quella comica, quella più cupa, persino il noir. La pluralità di atmosfere e livelli di percezione contribuisce a renderlo in qualche modo universale.
Perché lo è il tema. Non è un caso che Pinocchio sia uno dei testi più letti al mondo. Nella sua semplicità, è molto profondo. Vi si può cogliere un riferimento persino alla Bibbia. Pinocchio, impiccato, a un certo punto dice: “Papà, ma dove sei?”.

Nel 2026 saranno duecento anni dalla nascita di Collodi. Ci auguriamo che lo spettacolo possa continuare a vivere a lungo, ben oltre questa data, perché lo merita e per ricordarci che l’arte teatrale è anche artigianato, e richiede sempre tempo e cura.
“Pinocchio” sarà in scena al Teatro Menotti di Milano dal 4 al 9 febbraio.

PINOCCHIO
di Carlo Collodi
adattamento e regia Maria Grazia Cipriani
scene e costumi Graziano Gregori
con Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Carlo Gambaro, Ian Gualdani, Filippo Beltrami
suoni Hubert Westkemper
luci Angelo Linzalata
produzione Teatro del Carretto

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