A Prato, per Contemporanea 15, it’s Time To Move!

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EVERYONE GETS LIGHTER |ALL! di KINKALERI (photo: contemporaneafestival.it)|Nido di luce di Butterfly Corner (photo: contemporaneafestival.it)
EVERYONE GETS LIGHTER |ALL! di KINKALERI (photo: contemporaneafestival.it)
EVERYONE GETS LIGHTER |ALL! di KINKALERI (photo: contemporaneafestival.it)

Alla fine è andato in tilt il botteghino. Quelle cose quasi impossibili da dire a teatro. Code di mezz’ora per prendere un biglietto che manco Baryšnikov con Wilson a Milano.
Il ritorno di Contemporanea Festival 15 (fino al 4 ottobre) nei bellissimi spazi del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci a Prato è stato un successo andato oltre le più rosee aspettative. Sarà che in città c’era il Forum dell’arte contemporanea italiana e i partecipanti si sono riversati sull’evento, sarà che i nomi erano interessanti, con una parata di felini feroci da Biennale, fra Sieni, MK…

E’ sempre bello vedere 300 persone e forse più (l’occhio si riempiva di questa calca umana) nei nuovi spazi espositivi del Pecci per “Time to move”, serata dedicata alla danza, con performance in sequenza delle compagnie più rappresentative del panorama italiano: Virgilio Sieni insieme alla giovanissima compagnia Butterfly Corner, per ripercorre il viaggio della danza nelle epoche del corpo, MK con Giuda prigioniero di un paesaggio sonoro, Letizia Renzini & Marina Giovannini con “Slavery Tales”, Kinkaleri con l’alfabeto gestuale nato dalla collaborazione con Giorno, e i giovani Silvia Costa, Jacopo Jenna, Claudia Catarzi.
Ecco allora alcune velocissime sensazioni di pancia:
“Nido di luce” è un quartetto giovanile. Sono quattro adolescenti (Bettina Bernardi, Noemi Biancotti, Melissa Braccini, Linda Pierucci) tra i 13 e i 16 anni che hanno intrapreso un percorso articolato di educazione e ricerca nella danza e nella coreografia, qui nel corridoio curvo del Pecci in camicetta e culotte dentro uno spazio quadrato, un tappeto danza.
Raccontano, in una coreografia firmata Virgilio Sieni e condotta da Chelo Zoppi e Asia Pucci, il viaggio della danza nelle epoche del corpo. Il giovane danzatore come la creatura che vuole e sta per uscire dal nido. Salti, come i primi passi fuori dal grembo della natura. Movimenti sincopati. Sicurezze che arrivano pian piano. Una luce tenue di giorno le accarezza. Sono stupende nel loro diventare adulte, in quell’età in cui la tenerezza infantile lascia centimetro dopo centimetro spazio alla sensualità dell’età dell’adolescenza. E Sieni mette l’accento con maestria su questa sensazione impalpabile. Il lavoro sul gesto è quello del coreografo, l’Atlante che si declina nelle sue articolazioni geografiche e anagrafiche.
Butterfly Corner è un’emanazione del suo progetto di danza sociale, una compagnia formata da giovanissimi danzatori, nata nel 2013 in collaborazione con Compagnia Virgilio Sieni e Accademia sull’arte del gesto. Un altro tassello, bello, di un discorso ormai in piedi da anni. Nessuna novità estetica nello specifico, ma tanta freschezza pronta ad esplodere.
Pomodorini verdi.

Nido di luce di Butterfly Corner (photo: contemporaneafestival.it)
Nido di luce di Butterfly Corner (photo: contemporaneafestival.it)

No news, good news anche per Kinkaleri, il cui “Everyone gets lighter | all!” nasce figlio di un progetto che era già stato presentato a Contemporanea, interpretato da Marco Mazzoni e curato da Massimo Conti, quando lavorarono con i poeti maledetti della Beat Generation americana e portarono in Italia John Giorno.
Era “Rip It Up and Start Again!”, e in una serie di lavori riprendevano un alfabeto gestuale fatto di disegni del poeta americano, che Kinkaleri aveva tradotto in gesti e in coreografia, affidata a Jacopo Jenna, Simona Rossi, Marco Mazzoni.
Qui Mazzoni resta solo in una divertente conferenza spettacolo, una sorta di progetto di alfabetizzazione di massa, in cui ripercorrendo lettera per lettera l’alfabeto, gesto per gesto, ricompone poi parole, e dopo le parole i versi. Con tanto di punteggiatura. E allora  l’atto divulgativo diviene danza, il verso si fa coreografia. Il pubblico capisce cos’è la danza contemporanea. E quando il verso finisce e il gesto è chiaro, tutti in coro declamano la punteggiatura, operata con i gesti: “Punto!, Virgola!”. E il fragoroso applauso. E’ la gioia di riuscire a leggere il movimento. Un’operazione di dolcezza verso lo spettatore, una carezza poetica di incisività straordinaria.
Punto!

“A sangue freddo” di Silvia Costa è un duetto di slow motion anathomy interpretato da Silvia Costa e Laura Pante, appendice di un progetto fotografico nato dalla collaborazione tra la Costa e Silvia Boschiero di cui rimane in piedi il set.
Il pubblico è chiamato ad osservare il corpo umano nelle sue parti e nella sua morfologia, con la Pante che inizia la coreografia, sulla parte superiore di una struttura di legno che ingloba, fra cartacce appallottolate, il corpo della Costa, che qualche minuto dopo entrerà in movimento, sovrapponendosi ai gesti lentissimi dell’altra performer, quasi a raddoppiare e sezionare, a ricomporre. Questa almeno l’idea, la pretesa artistica, amplificata da suoni di corde tese, come muscoli allo spasimo. Ma l’emozione, finanche quella gelida, diciamo chirurgico anatomica, che viene poi esplicitamente evocata, non arriva.
Qualcosa manca.

Di tutt’altra energia dinamica è la proposta di Jacopo Jenna, “Choreographing Rappers” per un progetto sonoro di Francesco Casciaro con il supporto tecnico di Giulia Broggi e la produzione di spazioK_Kinkaleri, CANI, e il supporto di CROSS International Performance Award, Le Murate e Progetti Arte Contemporanea, Colletivo C_A_P.
Il titolo del progetto prende spunto dalla traccia “Signifying Rapper” di SchoollyD (1988), una “spiega” della guerriglia linguistica e delle manipolazione del linguaggio del rap cui seguì due anni dopo “Il Rap spiegato ai Bianchi” (1990) di Wallace e Costello.
“God is a Dj”, diranno i Faithless in 4/4 un decennio dopo, ma lì siamo già nella deriva house e nel TechnoFuturismo. Qui Jenna si ferma a quel momento, in quel punto, di fine anni ’90 in cui la storia segna il passo: quando cade il muro di Berlino la rapper delight invade il mondo.
Jenna lo abbiamo nominato proprio poche righe fa per il progetto Beat Generation di Kinkaleri. Qui il danzatore performer torna nel suo alveo generazionale e spara sul pubblico una vigorosa mezz’ora di rilettura della storia del rap, fra parole, riff e musica, dove alla fine tutti muovono la testa a ritmo, manco si stesse ad un concerto.
“I said a hip hop the hippie the hippie to the hip hip hop, a you dont stop the rock it to the bang bang boogie, say up jumped the boogie to the rhythm of the boogie, the beat…”.
Persino io avevo voglia di ballare. Lui perfetto, in una coreografia a metà fra B-boy in una dance-all e stilizzazione di questo codice verso il contemporaneo. Un afflato generazionale mi coinvolge nel progetto e me lo avvicina contro, perché “Choreographing Rappers” utilizza la danza e il corpo ma anche le parole dei rapper, proiettate a muro mentre Jenna davanti le trasforma in densità e frammentazione.
Ma attenzione, perché c’è anche un po’ il rischio di qualcosa che resti dentro e non arrivi fuori. Non è l’energia, che arriva, pura. E’ qualcos’altro, che non so nominare, e che lascio a Jenna ricercare profondamente.
Bella fratello!

Letizia Renzini
e Marina Giovannini con “A drum is a woman” presentano il primo passo di un complesso lavoro di coreografia corporea e colore all’origine del quale c’è le modalità della body painting, sostituita da una traccia organica che diviene pittura grazie all’efficacia dei materiali e della tecnologia (un supporto in plexiglass, e l’uso dei led sullo spessore della lastra). Una coreografia composita che vede coinvolte molte persone e che prosegue quello sugli Slavery Tales, presentato a Fabbrica Europa nel 2008.
Non abbiamo purtroppo visto la performance perché sovrapposta a quella di MK. Il programma era fatto in modo tale che occorresse decidere se andare di qua o di là.
Alla prossima.

E arriviamo al lavoro di MK, quel “Giuda” produzione mk 2010 Nuovo Teatro Nuovo / Fondazione Campania dei Festival / Napoli Teatro Festival Italia interpretato da Biagio Caravano.
Il pubblico nel piccolo spazio indossa le cuffie dentro le quali scorre la musica e la traccia audio realizzata da Lorenzo Bianchi Hoesch. La coreografia è ovviamente di Michele Di Stefano, che firma anche buona parte della traccia sonora, che comprende quelle che sembrano le sue indicazioni a tavolino, classiche chiacchiere fra coreografo e performer in cui si indaga sulla natura del personaggio che dovrà prendere vita in scena, ma con quel distacco con cui lo si racconta ad un amico davanti ad una tazza di caffè, con esempi e similitudini persino buffe: frasi che suonano come “E’ l’uomo sorpreso dall’essere chiamato all’azione, è Iker Casillas prima di entrare in campo che ripensa ai movimenti per non essere penetrabile, Antony Quinn che ripassa i movimenti del sirtaki”. Più o meno, eh.
Ma queste frasi ci illuminano su un’azione, su un movimento in cui, in corrispondenza di una data tempistica che scorre su un timer a led rossi, e che si ferma significativamente sul numero 33 (nulla a che fare col medico, ovviamente…), Caravano compie azioni, le accenna, entra in azione per poi fermarsi e ritirarsi a meditare su una sedia, spettatore di se stesso, con una birra in mano. Quasi a meditare su cose future, guerre causate, voglia di sentirsi una star e invece lì a bere la sua birra da solo, mentre le altre lattine, quelle del gruppo degli apostoli, magari, sono tutte lì, belle allineate. O sono le sue, bevute in solitudine? Sembra un Giuda pucciato nel vuoto di Carver e poi passato in un tritatutto. Quindi non facile da leggere, ma dopo averci dormito su, invece che evaporare, stranamente si ripropone.
Peperone.

Si finisce con “40.000 centimetri quadrati” di Claudia Catarzi. Lei viene dalle scuderie di Virgilio Sieni e Ambra Senatore, con cui lavora stabilmente. L’opera ha debuttato da tempo e girato in molti festival, da Kilowatt ad Armunia. C’è lei in questo spazio ristrettissimo. E il pubblico a fare le equivalenze. Lei con il suo corpo a vivere e far vivere il limite di spazio e movimento, il pubblico a vivere questa barriera più evocata che reale ma che assume un suo fascino con l’andare dello spettacolo. Che è un lavoro onesto. Che comunica all’esterno quanto vuole, ovvero, entro un limite preciso, indagare il tema dell’accessibilità a condizioni di cattività, con il corpo a scoprire e scoprirsi capace di adattamento.
Il corpo della Catarzi cerca equilibri e direzioni. Misura la cella. Ne sogna l’evasione e al contempo lo sforzo di adattarsi alla costruzione e alla costrizione. Il dentro, il fuori.
Di giusta durata rispetto all’idea. Quattro metri quadri. Quattrocento decimetri quadri. Quarantamila centimetri quadri. Sarebbe un francobollo visto dal trentesimo piano. Con una vita che ci si agita dentro.
Geometrie vitali.

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