Chi segue il teatro contemporaneo finisce spesso per abituarsi, volente o nolente, ad una grammatica speciale, riconoscibile, distintiva: si chiama “teatralese” e consiste in una breve serie di trucchi lessicali con cui, nelle note di regia così come nelle recensioni, si può sostanzialmente parlare di tutto. Dandosi, però, il crisma del critico o del fine esteta.
Ecco, allora, che al posto del banale “ritmo” capita d’incontrare degli arabescati “intarsi drammaturgici”. Chi di noi non ha letto o scritto almeno una volta “partitura”?, una metafora musicale che piace da sempre e che ha il pregio di sembrare tecnica, e che dunque, come il glutammato nei favolosi anni Novanta, è buona per insaporire un po’ di tutto, dalle luci ai gesti dell’attore.
Il verbo “abitare”, poi, in barba alla nuda concretezza dei movimenti per la casa, sta conoscendo un’incredibile fortuna metaforica.
Abitiamo tutti, o almeno molti, nella noia.
Ce ne sono tanti, di questi trucchetti verbali, e senz’altro non solo nel mondo del teatro o della cultura: è la normale tendenza a concordare silenziosamente un gergo che possa marcare la differenza fra chi vuole identificarsi come addetto ai lavori e chi, invece, si trova soltanto a leggere e a fruire.
Normale, questa tendenza, ma di certo non innocente, visto che chi ricorre a questi trucchi spesso fa anche un gran parlare di democrazia dal basso e partecipazione.
La divagazione iniziale serve però per dire che, grazie al cielo, non capita così di rado d’incontrare pezzi d’arte capaci, con una facilità disarmante (“disarmante”, eccone un altro!) e senza nessuna apparente belligeranza, di spazzare via in un colpo solo tutto questo provincialismo culturale.
È quanto mi è capitato andando a vedere a Short Theatre “Suite n°1 «ABC»”, non a caso una produzione internazionale, figlia del progetto TransArte, ideato dall’Institut français e sostenuto dal Ministero della Cultura e Comunicazione francese, dall’Institut français Italia e dall’Ambasciata di Francia in Italia, in collaborazione con Santarcangelo 14 e il network Finestate Festival.
Le prime impressioni, in realtà, non erano state buone: lo spettacolo, infatti, era presentato nel programma come un “concerto di parole”, e di concerti di parole – con il relativo corollario di “partiture” a giustificare il tutto – ne avevo visti fin troppi e di ogni tipo, dall’happening in salsa radical al Pigneto agli esperimenti antropologici più barbosi.
Ma, appunto, ci vuole poco a liberarsi dagli stereotipi: il leggìo vicino alla prima fila di poltroncine e i microfoni alla base del palco si sono rivelati indizi di quello che è stato sul serio, con profondità e meraviglia, un concerto di parole. Non poteva mancare quindi il direttore d’orchestra (Nicolas Rollet), a governare con sguardo e gesti gli apparati fonatori dei ventidue coristi sul palco (di cui undici invitati locali). “Apparati fonatori” non è un tecnicismo gratuito, perché i coristi non hanno quasi mai «intonato» le parole, ma le hanno restituite nella concretezza fonica con cui le incontriamo fuori dal teatro, e soltanto in un paio di casi si è ricorso al canto. Parole insomma, solo parole, senza trucchi: anzi, a dir la verità, si è scesi anche “sotto” al livello della parola, visto che fra le note del concerto c’erano anche tutti quei suoni o rumori o mugugni che emettiamo per annuire, esprimere dissenso o apprezzare la carbonara di oggi (il classico “mmmh!” in tonalità diverse).
«ABC» nasce dalla collaborazione fra Joris Lacoste, drammaturgo e regista, e l’Encyclopédie de la Parole, un gruppo di artisti e sociolinguisti che hanno raccolto e registrato più di 800 situazioni comunicative e le hanno indicizzate a seconda delle loro caratteristiche (intonazione, ritmo, dialogicità, ecc.).
Lo scopo della suite è semplice: riprodurre in forma corale, ma fedelmente, una selezione di queste registrazioni.
Il materiale è davvero vario; si va da una conferenza di Lacan a «South Park», da Eminem a una lezione di piano su «Imagine». Il direttore d’orchestra regola i volumi delle due ali del coro, facendo sì che emergano, dal babelico brusio iniziale, lacerti di francese o italiano, risate, colpi di tosse. Sembra, a tratti, la calca di Roma col suo corpo sonoro meticcio e disordinato; siamo, però, nella situazione di un concerto, c’è un direttore e ci sono le sue indicazioni sicure, ordinate. Allora è spontaneo cercare un senso, e se il senso non c’è si sente comunque il fascino di cercarlo. Sono soltanto i prodromi dei movimenti successivi, quando dalla Babele iniziale si passa alla riproduzione di contesti comunicativi ben precisi.
Ci aspetta una serie di trovate originali, semplici, intelligenti. Il linguaggio settoriale di una conferenza sulle differenze funzionali tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro del nostro cervello diventa una performance a cappella; il dialogo fra un maestro di francese e il suo allievo si coralizza, con i sempre meno maldestri tentativi d’imparare a pronunciare bene la liaison, che vengono amplificati da esilaranti effetti di slow motion collettiva; una telefonata per disdire un affitto viene riprodotta prima da uno e poi dall’altro estremo della cornetta, rispettando perfettamente tempismi e silenzi; lo scioglilingua in italiano, spagnolo e inglese, con sospiro collettivo e simultaneo quando la lingua s’inceppa; e si arriva perfino allo studio di funzione con tanto di integrali. Torna spesso, poi, il tema della traduzione: da un dialogo a tavola su come si potrebbe chiamare in inglese il consommè, alla lezione flash di “broken English in russian style”.
Il vertice della suite sta, probabilmente, nella già citata lezione su “Imagine”, quando le parole del maestro di piano si alternano, in uno schematismo che diventa armonia, alle note vere e proprie e al canto.
Non stupisce, allora, che si possano sentire espressioni come «sinergia biometrica» senza avere il minimo sentore d’intellettualismo. Il tutto sempre senza che i membri di questo coro poliglotta si appoggino alla rappresentatività, ricorrendo al massimo a qualche gesto o movimento simbolico. L’attenzione è tutta sul proteggere e far scoprire i tesori dell’oralità, analizzandone i meccanismi.
Il pubblico in sala, all’inizio diffidente, si lascia coinvolgere sempre più dal gioco, dalla ritmica sincopata con cui si dispongono le parole, dall’abilità tecnica e dalla seria indifferenza al contenuto con cui i coristi ridanno voce alla voce, in uno straniamento mai così efficacemente brechtiano (per come allena il pubblico all’attenzione vivace, a ricollocare certi dettagli della comunicazione fuori dall’ombra dell’abitudine). E, soprattutto, si ride: provare a spiegare perché un esperimento del genere riesca ad essere anche (in questo caso nient’affatto involontariamente) comico, significa entrare nel suo segreto.
Perché “ABC” fa ridere? Perché valorizzando non solo le singole sillabe, ma soprattutto quella torma di microsignificanti cui ricorriamo per esprimere emozioni ed esigenze quotidiane, ci mostra come, in fondo, siamo tutti “prodotti in serie” dalla grande multinazionale della natura, della società e del linguaggio. E al di là delle lingue in gioco, che in “ABC” sono tante, ci sono delle costanti quasi anatomiche nel nostro modo di comunicare che mettono in crisi, facendoci ridere, la nostra pretesa di essere individui unici, irripetibili.
Attraverso questa negazione, però, “ABC” fa anche una cosa che in quest’epoca è probabilmente più importante, e che il teatro in teoria dovrebbe fare da sempre: spezza gli automatismi e ricrea organicità. In questo caso, spezza gli automatismi del linguaggio, quelli che ci fanno perdere il contatto con la colorata e sorprendente varietà delle nostre espressioni, facendoci concentrare solo sul loro significato sociale; ricrea organicità, disponendole in maniera tale da ricordarci la loro bellezza in sé, la loro ricchezza.
È una sorta di catarsi, adeguata al teatro moderno. Ma è, soprattutto, un nuovo spazio per l’utopia: perché lo spettatore, dopo aver assistito a queste parole in concerto, si porta dietro un desiderio positivo di attenzione al reale. E cosa dovrebbe fare di più, il teatro, se non risvegliare l’attenzione all’altro da sé?
Da questo punto di vista, “ABC” ha davvero, come dicono le note di regia, il “germe della rivoluzione”, perché sa rimettere – in ogni senso – le parole al loro posto. Tanto più se proviamo a paragonarlo con lavori teatrali che ugualmente affrontano, in teoria, il problema della parola: rispetto a “Kaspar” di Peter Handke, ad esempio, che pure abbiamo visto in questo Short Theatre grazie alla messa in scena di Waas, Danesi e Fulgi e alla loro clownerie, la differenza è abissale.
Il testo di Handke, che pure è stato appena tradotto e pubblicato in Italia, è un testo invecchiato malissimo: legato ai suoi anni Sessanta, oggi denuncia per l’ennesima volta la violenza insita nel linguaggio, quella violenza con cui facciamo i conti e da cui proviamo a difenderci ogni giorno, a casa e in strada, nel rapporto con gli altri o coi media. Prolungare la lotta anche a teatro, quando non ci stupisce più di certo, è davvero una tortura.
“ABC”, invece, conciso nella sua ora e un quarto di durata, sminuzza e rigenera la parola. Il teatro diventa un centro per la raccolta differenziata del linguaggio: quando usciamo, abbiamo voglia di ascoltare e usare parole più giovani, di essere attenti, di non lasciarci sfuggire niente. Perfino i colpi di tosse o gli «Mhm» dei perplessi.
Ed è soltanto attraverso queste difficili banalità che a teatro, oggi, si può fare qualcosa di nuovo:
«ABC. One, two, three. That’s how easy love can be».
Suite n°1 «ABC»
progettazione e collezione d’archivio Encyclopédie de la parole
direttore d’orchestra: Nicolas Rollet
con: Ese Brume, Hans Bryssinck, Geoffrey Carey ou Théodoor Kooijman, Frédéric Danos, Delphine Hecquet
Vladimir Kudryavtsev, Emmanuelle Lafon, Nuno Lucas, Barbara Matijevic, Olivier Normand, Marine Sylf
e con gli 11 invitati: Alice Attala, Athaide Maria Grassi, Camilla Fabbrizioli, Simone Gatti, Rocco Federico Castellani, Olivier Gasperoni, Federico Paino, Carolina Pezzini, Beatrice Pinciaroli, Marco Gargiulo, Giulia Pilieci
collezionisti invitati: Constantin Alexandrakis, Grégory Castéra, Annie Dorsen, Myriam Van Imschoot, Loreto Troncoso Martinez, Barbara Matijevic, Olivier Normand, Sabine Macher, Berno Odo Polzer, Tomoko Miyata, Seyma Aouij
assistente alla regia: Elise Simonet
costumi: Nathalie Lermytte
luci: Koen De Saeger e Florian Leduc
direttore di scena: Florian Leduc
produzione: Frédérique Payn e Marc Pérennès
Suite n°1 “ABC” è prodotto da Echelle 1:1
in coproduzione con: Kunstenfestivaldesarts, Parc de la Villette – résidences d’artistes, Théâtre Universitaire di Nantes, Centre Georges Pompidou, Festival d’Automne à Paris, Théâtre National Bordeaux Aquitaine, Nouveau Théâtre de Montreuil – centre dramatique national, Studio-Théâtre de Vitry, Macval, NXTSTP con il supporto del Programma Cultura dell’EU
in collaborazione con: Institut Culturel Français, Centre National du Théâtre
con la collaborazione artistica di Jeune Théâtre National
Echelle 1:1 riceve il supporto dal Ministero della Cultura e della Comunicazione e DRAC Île-de-France
www.encyclopediedelaparole.org
Nel 2014 l’Encyclopédie de la parole è stato ripreso da David Christoffel, Frédéric Danos, Joris Lacoste, Emmanuelle Lafon, Valérie Louys, Nicolas Rollet e Elise Simonet.
durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 6′
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 13 settembre 2014