Alessandro Businaro ha fatto il suo stile. Questo è ciò che si pensa uscendo già da “Sciupafiabe”, primo spettacolo della trilogia “Abitare lo specchio” di cui firma la regia, prodotta dal Teatro Stabile del Veneto, andata in scena a Padova a luglio. Soggetto di Tommaso Fermariello, dramaturg Stefano Fortin. Un lavoro che, seguendo al debutto in Biennale Teatro 2020 “George II“, mostra le carte di un centro raggiunto, di un modo del teatro nuovo, fatto proprio. Nuclei tematici capaci di tornare pur partendo da due testi così diversi, la sua estetica ora sublimata ad un grado superiore, ancor più ipnotizzante di prima, il teatro di Businaro si fa più assorto e visionario, più contemporaneo.
Liquidiamo subito la trama, che segue “il viaggio di una donna attraverso l’infanzia, il ritorno alla casa e alla violenza per sciogliere dei nodi, delle tensioni”. La trilogia è quindi divisa come segue:
I. Sciupafiabe: quattro bambini si trovano nel bosco a giocare, in un luogo dove si può fare tutto e in cui non valgono le regole del mondo esterno.
II. Home run: la donna, ormai protagonista della storia, oltrepassa la macchia e ritorna a casa, un luogo dove si accumulano ricordi, rapporti irrisolti e violenza.
III. Istruttoria: la donna compie l’ultima tappa del processo.
La taglierei qui, la trama. Perché, dopo tre giorni passati dentro a tutto questo, non mi è venuto da pensare che la narrazione fosse un fatto cruciale dell’emergenza artistica di questa ricerca.
È difficile riassumere in poche righe i contenuti effettivi di questo lavoro, che ha in sé le meritate dimensioni mastodontiche che più spesso si vorrebbero vedere affidate alla giovane ricerca davvero capace (e non più soltanto promettente) della nostra scena contemporanea.
Ciò che rimane di questa grande cosa accaduta a Padova – soprattutto parlandone ad ormai un mese di distanza, di deposito – penso sia l’atteggiamento: la ricaduta diretta, e concretamente esperita da chi c’era, delle ambizioni dei molti uniti a pensare il lavoro. L’atteggiamento nei confronti del testo, del teatro.
Nel corso delle tre serate moltissimi sono stati infatti i momenti in cui, ad esempio, gli attori sottolineassero il fatto di essere a teatro, invitassero a riconoscere il rumore di una macchina subito al di là del muro che ne lasciava trasparire il suono, o certe cruciali porzioni di testo in cui i protagonisti, o gli attori con più battute, dichiarassero di voler sempre più battute per sé, da recitare, facendo luce su un tema ancora troppo poco percorso come quello del narcisismo ipertrofico, e strettamente performativo, sulla scena, di chi oggi vuole fare “l’artista”.
Fermariello e Businaro non ci hanno però condotto di fronte a del semplice e in fondo rassicurante meta-teatro. In “Abitare lo specchio” si è di fronte ad un teatro alla ricerca del proprio grado zero, ma in modo del tutto paradossale.
Se il primo “Sciupafiabe” conserva ancora qualche tratto mimetico, i primi scossoni si hanno con l’inizio di “Home run” quando, per una quantità di tempo esasperante, si sta di fronte a Lei e all’Altra. La prima tenta di comunicare con la seconda, simula un suo ritorno a casa da lontano, dopo diverso tempo, e tenta l’innesco della conversazione di sempre, per recuperare tutto ciò su cui non ci si è ancora aggiornati riguardo alle proprie vite. L’Altra, però, non risponde, e solo dopo un lungo strazio di incomunicabilità tra le due – con non pochi giochi del tipo: “Ora tocca alla tua battuta, qui tu dici…” senza le sue risposte – si procede con lo spettacolo.
Alla ricerca insomma del grado zero tanto del linguaggio quanto della scena, per poi ricostruire. Mi è parsa questa l’idea dietro il lavoro. Sciupafiabe. Ma quale fiaba, domani, per dormire? Togliere così tanto teatro al teatro da far sì che il pubblico non possa che specchiarsi. Questo, almeno per chi scrive, il senso del titolo proposto. E finisce che la condizione degli attori sia identica a quella degli spettatori. Di fatto, non c’è nulla da fare.
In “Istruttoria”, terza parte della trilogia, si raggiunge l’estremo più assoluto: ottima la radicalità nel perseguire la coerenza della ricerca iniziata, ma alto il rischio di perdere il pubblico per strada.
Con un lungo tavolo quasi da conferenza sul fondo della scena, cinque attori parlano ognuno di sé.
C’è qui un allontanamento dal testo, che fa sentire però la sua oscura forza calamitante, la sua presenza occulta, la sua mancanza così presente. Per due ore si assiste al racconto di fatti personali di ciascuno. Inventati? Loro propri? Certo il pettegolezzo piace a tutti, ed è grazie a questo salvacondotto un po’ banale che si salvano alcuni racconti in fondo non così cruciali e necessari, a tratti anche eccessivamente giovanilisti e un po’ troppo naif. Il rischio del personale. Siamo importanti, noi e i nostri problemi, ma non fino a questo punto?
Tutto, in questo tipo di teatro, è all’insegna della disillusione più assoluta, ma è impossibile, al contempo, non vedere quanto sia focalizzato al massimo sulla ricerca disperata di un destinatario. Bel paradosso, che tiene però il lavoro in tensione, e lo fa vivo – e unico, aggiungerei.
Lo si sente quando, alla fine delle tre serate, arriva la confessione di Lorenzo Frediani. È lui la vera anima scenica di questa trilogia. Lo è per le straordinarie capacità attoriali, così uniche, personali ed efficaci, ma lo è anche per pregnanza sostanziale. Quando racconta, al termine della trilogia, la storia di uno zio vissuto come un modello eroico, si percepisce di assistere a qualcosa che ci supera. Ed è ancora lui a rendere presente fisicamente sulla scena il grande nucleo tematico che dà la struttura e i contenuti più interessanti del lavoro.
La grande illuminazione di “Abitare lo specchio”, a livello tematico e contenutistico, mi pare stia tutta nel riuscire, pressoché sottotraccia, a far vedere che anche chi oggi ha solo 25 o al massimo 30 anni è dotato di un immaginario proprio all’interno del quale sono già presenti i primi segni di collasso, di ferita, di perdita.
Sulla base delle sue adolescenziali letture dell’Ariosto, Pascoli immaginava che la generazione di chi è ora sul finire della propria vita avesse avuto tutt’altri riferimenti; ed ecco che anche a noi tocca la nostra parte di ricchezza: è in fondo il crearsi di una tradizione, che Fermariello e Businaro strutturano, dandole forma visibile, e destrutturano al contempo.
Sembrerà concettoso, o un pensiero eccessivo, ma questo ho riconosciuto di fronte ai brividi per una scena in cui Frediani canta urlando violentemente il testo di una canzone che andava negli Anni Zero: “Buongiorno buongiorno io sono Francesco / Io ero un bambino che rideva sempre / Ma un giorno la maestra dice oggi c’è il tema / Oggi fate il tema, il tema sul papà / Io penso è uno scherzo sorrido e mi alzo / Le vado lì vicino ero contento / Le dico non ricordo mio padre è morto presto / Avevo solo tre anni non ricordo non ricordo” e il celebre ritornello: “Puttana puttana, puttana la maestra”.
Ho pensato al nostro immaginario che muore senza che si sia in grado di riconoscerlo, anche di fronte ai ricordi di Frediani sui giocattoli comprati a puntate, in edicola, quando si era piccoli. Le collezioni di minerali, e tutto il resto. “Dov’è finita tutta quella roba?”.
L’ho pensato, infine, anche di fronte alla miriade di bigliettini che “Home run”, la seconda serata, vedeva sparsi sulla grande macchia nera, con l’Altra dedita a leggerli. Quei bigliettini di cortesia, colorati, per noi così imbarazzanti in quanto normali, felicemente normali. Oggi spariti. Per come entrano nel lavoro sono forse l’anello chiave che rende tutto in grado di parlare anche a chi giovane non è più.
Non è soltanto il nostro immaginario, il nostro benessere infinito, a disgregarsi. Che non si pensi che, dai 40 anni in su, si possa pensare ad “Abitare lo specchio” come ad un viaggio voyeuristico nei “problemi dei giovani”. Tutt’altro.
Mi sono soffermato sui concetti, avrei potuto dedicare più spazio a dire quanto sia soddisfacente il complesso delle scelte registiche e scenografiche (scene e costumi di Gregorio Zurla, luci di Gianni Staropoli). Ogni personaggio è calibrato in modo semplicemente perfetto per il suo attore (quasi tutti della Compagnia Giovani del Teatro Stabile del Veneto, nel complesso piuttosto sorprendenti), movimenti di scena sopraffacenti come quello anche solo del fondale nero che chiude il palco in “Home Run”, della gabbia/vetrina/rifugio trasparente che scende dall’altro con il fare mistico di un deus ex machina tutto contemporaneo: basta guardare la meravigliosa curva dell’asta di qualche microfono appoggiato per terra, compiacente, per capire che la cura e lo stile hanno qui tutti i connotati dell’impeccabilità.
Che tutto ciò sia accaduto ai confini delle geografie di ricerca del teatro italiano ha in sé qualcosa di unico e irripetibile – il lavoro è decisamente arrivato a chi c’era, ma basta? – e al contempo, infatti, di rischioso.
Per il tipo di lavoro e di ricerca qui portati avanti, che lo spettacolo manchi di toccare zone più centrali e pubblici differenti rischierebbe infatti di mettere a tacere una grande possibile novità del nostro teatro: la linea di chi sa che se la prosa è ormai debole, non lo è quella giovane, non quella davvero contemporanea.
Abitare lo specchio – una trilogia
drammaturgia: Tommaso Fermariello
dramaturg: Stefano Fortin
con: Lorenzo Frediani, Ivan Olivieri
e con gli attori della Compagnia Giovani del Teatro Stabile del Veneto: Caterina Benevoli, Andrea Bonfanti, Gianluca Bozzale, Eleonora Landi, Claudia Manuelli, Gianluca Pantaleo, Marta Riservato, Jessica Sedda, Daniele Tessaro
assistenti alla regia e dramaturg: Nicola Andretta, Elisa Pastore, Lahire Tortora
regia: Alessandro Businaro
scene e costumi: Gregorio Zurla
luci: Gianni Staropoli
suono: Dario Felli
assistente scene e costumi: Alberto Allegretti
foto: Francesca Paluan
Visto a Padova, Teatro Verdi, 8-10 luglio 2021