Keely è una ventinovenne che si ritrova ammanettata ad un letto in una fredda stanza dalle pareti bianche. I suoi carcerieri, un prete e l’infermiera Du – membri di un’organizzazione cristiana per la difesa della vita –, vogliono impedirle di abortire il feto che porta in grembo e frutto di una violenza sessuale subita dall’ex marito.
Keely, nonostante l’umile origine, una situazione dolorosa alle spalle e la tortura mentale inflitta con particolare violenza dal prete, non cede al continuo lavaggio del cervello che le viene somministrato. È decisa, sa cosa vuole, è cosciente di sé e della sua condizione, nonostante emergano in lei tratti di un’immaturità frutto del desiderio di vivere diversamente la propria giovane esistenza. Saranno proprio la tenacia e la determinazione a permetterle di scegliere il suo destino.
Beppe Rosso ha deciso di rispettare integralmente il testo, senza adattarlo alla situazione italiana, proponendo uno spettacolo suddiviso in quadri a volte un po’ troppo frammentati. L’opera della Martin, vincitrice del Premio Opera Prima dell’American Theatre Critics Association e finalista al Pulitzer, appare così, a tratti, distante dalla nostra realtà, con evidenti richiami alla società statunitense.
D’impatto la scenografia curata da Paolo Baroni che, facendo ricorso a semplicità e linearità assolute ma ricercate, sa creare con pochissimi elementi quell’effetto di ambiente asettico, in contrapposizione alle emozioni e agli ideali rivendicati al suo interno. Una sedia, un letto e uno sgabello per quattro attori che si alternano sulla scena. Un enorme quadrilatero di luci che dall’alto scende sempre di più, come a chiudere la scena, a soffocare le speranze man mano che la gravidanza procede, per poi racchiudere, nel finale, la disperazione di Du. È lei la co-protagonista della vicenda: l’infermiera-carceriera, interpretata dalla brava Barbara Valmorin, oscillante tra una fede dogmatica e un’umanità di sentimenti verso Keely che porterà le due donne a diventare, in qualche modo, complici. Contraltare alla signora matura, religiosa, che si è adoperata tutta la vita per un marito e tre figli maschi, Keely incarna valori totalmente diversi, in cui l’abnegazione viene sostituita dall’ascolto di sé e dei propri desideri. Federica Bern rende il personaggio della giovane donna ambiguo, quasi surreale, scisso tra la coerenza delle proprie idee e il non rendersi conto del dramma che sta vivendo, quasi confusa, alla ricerca di un irrequieto slancio verso la leggerezza del vivere.
A Beppe Rosso il ruolo del prete, cieco davanti alla libertà individuale poiché “latitante di Dio per porre fine a questa carneficina”. Una scheggia che rimane è la breve apparizione di Aram Kian nel ruolo dell’ex marito, pentito e trasfigurato dopo il trattamento di redenzione corporal-spirituale ecclesiastico. Simbolo riuscito, insieme al prete, di un certo fanatismo religioso.
Ma, alla fine, tutto sta in quella gruccia che, all’improvviso, quando le cose sembrano ormai essere predeterminate, una Keely senza ripensamenti trasforma in svolta. Per imporre la sua scelta. Contro il suo corpo, la religione e la libertà non riconosciuta.
KEELY AND DU
di Jane Martin
regia: Beppe Rosso
traduzione: Filippo Taricco
con Barbara Valmorin, Beppe Rosso, Aram Kian e Federica Bern
scenografia: Paolo Baroni
luci: Cristian Zucaro
produzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino
e ACTI Teatri Indipendenti con il sostegno del Sistema Teatro Torino
durata: 1h 26′
applausi del pubblico: 2′ 10”
Visto a Torino, Teatro Gobetti, il 30 marzo 2008