Eclettismo, fantasia, contaminazione; capacità di armonizzare spazio e tempo, sacro e profano, assoluto e contingente. Tutto questo era Franco Battiato, musicista, cantautore, pittore, regista cinematografico. Vegetariano convinto. Politicamente un «proletario dello spirito»: né di destra né di sinistra, ma sempre «in alto, per l’essere umano e per gli esseri umani». Mai controcorrente per partito preso, mai nel coro per comodità.
Noto per canzoni cult come “L’era del cinghiale bianco” “Centro di gravità permanente”, “E ti vengo a cercare” o “La cura” (che qualcuno considera la canzone più bella d’amore italiana), pochi ricordano il Battiato autore teatrale.
Eppure, tra il 1987 e il 2011, l’artista catanese, morto ieri a 76 anni, ha scritto quattro opere liriche che hanno avuto un discreto successo, seppure non paragonabile a quello dei suoi dischi più celebri. Parliamo di lavori come “Genesi” (1987), “Gilgamesh” (1992), “Il cavaliere dell’Intelletto” (1994) e “Telesio” (2011).
«Opere colte», le aveva definite lo stesso Battiato: un po’ per distinguerle dalle canzoni, un po’ per modestia, a evidenziare la soluzione di continuità con il melodramma ottocentesco che annoverava operisti come Rossini, Verdi e Donizetti, o Vincenzo Bellini, catanese come lui.
A riguardare oggi i frammenti di quei lavori di Battiato, colpisce l’affresco sinestetico che realizzano spaziando dal synth all’orchestrazione classica, con incursioni nel canto gregoriano e interpolazioni arabe. E poi, sul piano scenico, è stordente l’abbondanza di immagini monocrome, gli effetti luminescenti, il ricorso ora al teatro d’ombre, ora a una virtualità di installazioni sonore e visive, ora a suggestivi ologrammi tridimensionali.
Sensibilissimo alle novità tecnologiche applicate alla musica, Battiato si serviva di contributi eterogenei (l’ex monaco benedettino Juri Camisasca, il filosofo Manlio Sgalambro, il compositore Carlo Boccadoro, la coreografa Sen Hea Ha, fino all’attore Toni Servillo) per esplorare l’inconscio e la metafisica.
Gli orizzonti archetipici di Battiato si stagliavano su un sincretismo sia spirituale sia linguistico. I suoi attraversamenti drammaturgici e musicali spaziavano nei temi (dalla Bibbia alla mitologia, dal sufismo al dialogo interreligioso nella Sicilia medioevale, alla filosofia) e fondevano linguaggi espressivi eterogenei come la danza, il canto, la pittura. Le scenografie tra virtuale e reale conferivano ai lavori un’inquietante e magica verosimiglianza.
Il mondo variegato di Battiato trovava nel teatro una fisicità onirica. Nel “Telesio”, ad esempio, danzatori giavanesi si muovevano su coreografie coreane ipnotiche, in un intreccio di linguaggi godibile, grazie al raffinato dosaggio di arie cantate, parti recitate, nenie arabeggianti, balletti, cori, silenzi. Proprio questo Battiato auspicava nello spettatore: che si portasse a casa il silenzio.
Certo le contaminazioni ardite di Battiato apparivano fuori contesto nell’Italia patinata e smargiassa degli anni Ottanta e Novanta. Ci piacerebbe rivedere quelle opere adesso. Sarebbe interessante riprenderle, magari con una regia icastica, essenziale, meno elaborata. Destinando la fruizione a un pubblico affrancato da una visione tradizionale e codificata dell’opera lirica.
Anche nelle sue escursioni teatrali, Battiato ha continuato il suo viaggio alla ricerca di nuovi sentieri. La musica per lui non era mezzo né fine, ma semplicemente palingenesi: «Lo specchio della trasformazione di chi la fa, lo strumento della trasformazione di chi la ascolta».
Da bambino rispose in un tema di terza elementare alla domanda: «Io, chi sono?». Quella domanda, Battiato ha continuato a porsela anche quando era una celebrità, con quel tanto di tormento interiore che gli costava.
Da alcuni snobbato come una rarità, da altri venerato come un guru depositario di una sfera meditativa sempre più sottile, l’artista siciliano, nella sua casa di Milo alle pendici dell’Etna, dove si era rifugiato di ritorno da Milano all’apice del successo, continuava a riflettere su temi forti come morte e vita, materia e spirito, stupidità e follia. «Nell’ordinario – diceva – queste domande non se le pone più nessuno. Viene vissuto come superfluo e come lusso ciò che invece è essenziale».
Fedele solo al proprio mondo interiore, Battiato conferiva ai propri lavori una penetrazione filosofica e poetica. Il suo talento si esprimeva nel costruire una narrazione volutamente discontinua, costellata di riferimenti alle culture orientali ma con lo sguardo interiore rivolto all’amata Sicilia, retroterra imprescindibile per ogni suo atto creativo.
Battiato lanciava una sfida perennemente stimolante. Perché per lui «l’arte è cosa sublime. Non possiamo considerare la musica come una colonna sonora per amori spezzati. Un artista che si documenta e legge non fa altro che condividere le sue conoscenze. La musica è una lingua in codice che ha il potere di trasportarti in mondi che non hai mai conosciuto».