L’albergo dei poveri. Massimo Popolizio nell’umanità dolente di Gor’kij

In primo piano Massimo Popolizio (ph: Claudia Pajewski)
In primo piano Massimo Popolizio (ph: Claudia Pajewski)

Con la riduzione teatrale di Emanuele Trevi, lo spettacolo è in scena al Piccolo Teatro di Milano fino al 28 marzo

E’ un ritorno alle origini del Piccolo Teatro quello (non casuale) che Massimo Popolizio propone, con la riduzione teatrale dello scrittore Emanuele Trevi, allo Strehler di Milano in queste settimane, dopo il debutto nazionale all’Argentina di Roma.
Infatti fu proprio Strehler a scegliere “Nei bassifondi” di Maxim Gor’kij (cambiandone il nome ne “L’albergo dei poveri”) come opera prima con cui dare avvio, nel 1947, alla celebre avventura che tutti conosciamo.

La scena (di Marco Rossi e Francesca Sgariboldi) è dominata dal grigio delle altissime pareti di bordo palco, che “sequestrano” oggetti e attori. Non ci sono finestre dalle quali guardare altrove ma soltanto varchi, molti privi di porte, che consentono solo ad alcuni personaggi di andarsene, quelli sì, nella luce.
Il pavimento è ruvido, sporco, materico. Non ci sono rifiniture, domina il marrone della terra, del fango, probabilmente dei liquami che macchiano irrimediabilmente i piedi, talvolta nudi, dei derelitti che, loro malgrado o per fortuna, ci abitano.
Il fetore non c’è ma lo si sente ugualmente negli abiti consunti, nelle pelli macchiate, nella carne da macello di un’umanità da nascondere, da gettare in quei “bassifondi” per celarli alla società.
Un mondo sotterraneo e parallelo fondato sull’istinto primario di sopravvivenza alla malattia, alla fame ma anche agli istinti più bestiali.

Non ci sono reali protagonisti ne L’albergo dei poveri di Popolizio, né figure davvero positive. Domina, al centro, una passerella lignea di strutture mal assemblate che i numerosi attori compongono e smontano per soddisfare le loro esigenze essenziali: dormire, mangiare, bere, sopravvivere, morire.

In questa cornice di degrado si muovono figure bizzarre, molte delle quali autodefinite. E’ così ad esempio per il conte decaduto, il pellicciaio in rovina, l’attore che non decolla, la giovane storpia in cerca d’amore. Tutto è lì davanti a noi, non ci sono seconde letture al di fuori di ciò che si vede.

Lo spettatore spia in un mondo altro che intravede, in basso, guardando da un tombino sulla strada. Non c’è speranza per gli ospiti di questo inospitale albergo, tormentati da proprietari senza scrupoli e costretti costantemente a guardarsi alle spalle, tanto che perfino la fine dell’esistenza dell’altro viene vissuta come sollievo per chi resta, rafforzato dal termine del fetore e dei rantoli, dalla vittoria del piccolo problema a discapito del grande, irrisolvibile.
Accade così per una donna malata e allettata, vittima anche dell’incuria del marito, più attratto dall’alcool e dall’amante che dalle sofferenze della consorte.

E’ crudele Gor’kij nel presentarci l’affresco di un’umanità dolente senza darci un’appiglio, e restituendoci uno spaccato di un tempo così lontano da diventare paradossalmente contemporaneo. Popolizio sparge sale sulle ferite anche attraverso l’interpretazione di un personaggio che, solo in apparenza, sembrerebbe portare al racconto qualcosa di diverso.
Predicatore, sacerdote, religioso indefinibile ma dai tratti definiti: bastone, amuleto al collo, una grande barba in volto e soprattutto una verità apparente diversa dalle altre.

Trova subito ascolto, questo particolare pellegrino, che interviene soltanto dopo che la fotografia di ciascun ospite sarà molto chiara in platea. Suscita fascino nel suo osservare partecipe e nei consigli che dispensa, forte della sua fede, unico bene che porta con sé.
Attenta e curata l’interpretazione, volutamente enfatica, sembra farci intravedere altro dietro alle fronde di una quotidianità sempre uguale. Ma è un’illusione. I passaggi temporali, rappresentati da variazioni temporanee di luce (unico elemento che cambia, a cura di Luigi Biondi) ci riportano sempre al punto di partenza.

La situazione si complica, avviene uno scontro violento, muore nuovamente qualcuno. E addirittura sorridiamo nell’assistere al cadere a terra di un’altra anima, stavolta perfida e violenta, che la regia ci mostra in uno straniante momento tragicomico che non possiamo dire chiuda lo spettacolo: perché non c’è nulla da concludere, così come non c’è niente da iniziare.

In scena a Milano fino al 28 marzo.

L’albergo dei poveri
uno spettacolo di Massimo Popolizio
tratto dall’opera di Maksim Gor’kij
riduzione teatrale Emanuele Trevi
scene Marco Rossi e Francesca Sgariboldi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Saviozzi
movimenti scenici Michele Abbondanza
assistente alla regia Tommaso Capodanno
con Massimo Popolizio
e con Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito, Michele Nani, Giovanni Battaglia, Aldo Ottobrino, Giampiero Cicciò, Francesco Giordano, Martin Chishimba, Silvia Pietta, Gabriele Brunelli, Diamara Ferrero, Marco Mavaracchio, Luca Carbone, Carolina Ellero, Zoe Zolferino
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro di Roma – Teatro Nazionale

durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 3′ 15”

Visto a Milano, Piccolo Teatro Strehler, il 10 marzo 2024

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