Alfonsina Strada di Monica Faggiani: disobbedienza femminile dalla bici al palco

Alfonsina (ph: Valerio Iglio)
Alfonsina (ph: Valerio Iglio)

A Teatro Laboratorio di Milano, la storia della ciclista che sfidò i maschi al Giro nell’Italia di Mussolini

Erano gli anni pionieristici del ciclismo in Italia. Non ancora quelli degli eterni rivali Coppi e Bartali, immortalati dalle canzoni di Gino Paoli e Paolo Conte. Neppure quelli mitici di Gimondi e Merckx, cui Enrico Ruggeri ha dedicato la bellissima “Gimondi e il cannibale”.

Con “Alfonsina con la A. L’incredibile storia di Alfonsina Strada”, Monica Faggiani omaggia Alfonsa Rosa Maria Morini (Castelfranco Emilia 1891 – Milano 1959), prima donna ciclista professionista a sfidare gli uomini agli albori di gare prestigiose come il Giro d’Italia e il Giro di Lombardia.

Il monologo è approdato a Teatro Laboratorio, dopo il debutto ad Alta Luce Teatro, avvenuto a metà marzo. Teatro Laboratorio, in via Monte Suello a Milano, tra Città Studi e Linate, è un spazio accogliente che Roberto Cajafa gestisce offrendo corsi, spettacoli, presentazioni di libri e altre iniziative culturali. Praticamente è il sotterraneo di un condominio. Un rifugio nato appena prima del Covid, sopravvissuto come sopravvivono i fiori nutriti con cura e dedizione durante la bufera.

Dedizione e cura caratterizzano anche questo monologo, che regala emozioni e sorrisi. Che donna combattiva, Alfonsina Strada. Quando nel 1924 si iscrisse al Giro d’Italia, tutti pensavano che si sarebbe arresa subito, estenuata da quelle tappe infinite (la Bologna-Fiume misurava 415 km) su strade polverose, con percorsi scoscesi tra erte e precipizi.
Il fango. La pioggia. Il gelo delle cime innevate. Il sole battente. I tubolari attorno al busto. La sete e le crisi di fame. Le infinite forature. La cadute a iosa. Le ferite. Le croste sulle gambe. Le vesciche ai piedi. La canna e il manubrio della bici che si spezzavano, e si riparavano con spago e manico di scopa. Uova sode, banane e biscotti come cibo. La borraccia da riempire alle fontane. La pipì dietro ai cespugli. Il peso corporeo che calava giorno dopo giorno. E bisognava improvvisarsi medici, infermieri, meccanici.
Uno sport da maschi. E invece Alfonsina si impuntò. Fu definita “diavolo in gonnella”. Fu apostrofata come “matta”, “vacca”, “logia” (in milanese, “sgualdrina”). Le urlavano «Non ce la farai». Non la soccorrevano se finiva in un burrone.
Alfonsina lottò. Raschiò il fondo del barile. Perse sette chili. Cadde e forò decine di volte. Alla fine tagliò il traguardo di quel Giro di cent’anni fa, in quei giorni famigerati in cui il fascismo patriarcale e sessista preparava il delitto Matteotti. Alfonsina rifiutò di stringere la mano al Duce, che provò a sfruttarne ipocritamente l’icona.

Il monologo di Faggiani è senza fiato. Sulla scena, una bicicletta stilizzata pende come una mannaia, o forse è una specie di simulacro. Sul palco, una sedia. C’è il vuoto, anche sonoro. Solo qualche sfumato di luce sul fondo scuro. Fuori campo, rarissimi contributi vocali.
Faggiani, attivista di Amleta, dà forma a una storia di disobbedienza ed emancipazione femminile. La narrazione si sofferma sull’infanzia di Alfonsina, sui dissidi con la famiglia di origini contadine, per la quale una ciclista in famiglia era un’umiliazione da scontare negli sguardi dei vicini, nel giudizio sommario del parroco, per il quale il contatto del corpo femminile col sellino era una concessione all’onanismo.

Si presenta in lungo abito nero, Monica Faggiani. Senza trucco. I capelli legati. Le scarpe vintage. La sedia non è solo oggetto scenico tipico dei monologhi, ma diventa manubrio, sellino, canna di bicicletta. È cima su cui svettare e traguardo da festeggiare a braccia aperte. È salita da scollinare. È precipizio su cui languire dopo una caduta, prima di risollevarsi ancora.
Il vestito nero è il costume di una donna chiamata a esorcizzare cattiverie e pregiudizi. Alfonsina con la A (la “Gazzetta” la chiamò Alfonsin, “il Resto del Carlino” addirittura Alfonsino) era diversa da Giulia Occhini, la “dama bianca” che aspettava Coppi al traguardo in abiti quasi nuziali.
Cambio di costume, e Alfonsina scopre gambe forti da ciclista.

Emoziona Monica Faggiani. Nei suoi occhi luce e passione. E poi forza, carattere, rabbia, rivalsa. E ancora sofferenza, consapevolezza, determinazione. Occhi che si trasfigurano con i personaggi e gli stati d’animo che rappresentano. Diventano lucidi quando narrano l’amore salvifico con Luigi Strada, anche questo fatto di gioie e dolori, fino alla lacerazione del manicomio, in cui il marito fu rinchiuso proprio alla vigilia della partenza della corsa rosa. Ed è su quest’amore che fa capolino la musica, le note di Sergio Endrigo (“Io che amo solo te”), prima dell’epilogo su “Bellezze in Bicicletta”, brano cult degli anni Cinquanta ispirato proprio alla ciclista emiliana.
Un massaggio civile. Toni mai smielati. Faggiani recita su un fazzoletto di palcoscenico, e crea il movimento frenetico di una bicicletta da corsa. Nei suoi muscoli, energia e fatica. Nel suo sguardo l’accumulo dei giorni di patimento. E poi ancora i sussulti verbali, le sfumature e le gradazioni della voce, ora dura ora carezzevole. Il pubblico è rapito da una storia quasi dimenticata, se non fosse per il bel libro di Simona Baldelli, pubblicato da Sellerio nel 2021.

La forza. Il coraggio e il talento delle donne. Un lavoro che è un atto di ribellione e la celebrazione di un’avanguardista del femminismo. Una documentata pagina di storia e di letteratura. Soprattutto, l’energia di uno spettacolo e il carisma di un’attrice che meritano palcoscenici importanti. Augurandoci che i direttori dei teatri del 2024 siano più avveduti degli organizzatori delle gare ciclistiche di cent’anni fa.

ALFONSINA CON LA A – L’incredibile storia di Alfonsina Strada
di e con Monica Faggiani

durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 2’30”

Visto a Milano, Teatro Laboratorio, il 5 aprile 2024

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