“L’amore del cuore” (Heart’s Desire) va in scena per la prima volta a Edimburgo nel 1997, accoppiato a “Caffettiera blu”, sotto il titolo cumulativo di “Cuore blu”. È stata l’opera di Paola Bono, che prosegue da diversi anni il laboratorio permanente sull’opera dell’autrice Caryl Churchill “Non normale, non rassicurante”, a proporre per la prima volta i due testi a Roma, affidandoli alla regia di Lisa Ferlazzo Natoli e di Giorgina Pi, all’Angelo Mai nel 2015. Ora, a diversi anni di distanza, quella produzione di “L’amore del cuore”, con qualche variazione nel cast, torna in scena al Teatro Vascello, da sola.
Di cosa si parla? Di un’attesa, l’attesa che una irrancidita coppia inglese, Brian e Alice (Tania Garribba, Francesco Villano), sconta del ritorno della figlia Susy (Angelica Azzellini) dall’Australia, dopo una lunga assenza; sono con loro la zia di Susy (Alice Palazzi) e il fratello Lewis (Fortunato Leccese), pecora nera della famiglia, alcoolizzato e probabilmente depresso.
Ma se Susy farà appena in tempo a mostrarsi nel finale, ora in voce, ora con il proprio corpo sulla porta d’ingresso, c’è un sesto personaggio in scena, presente e incombente, che nel testo, edito in Italia da Editoria&Spettacolo, si cercherebbe invano nella lista delle ‘dramatis personae‘. Sono le didascalie, quei corsivi che, dopo pochi secondi dall’inizio, già recitano implacabili, con la voce dello stesso Leccese: «Si fermano. Brian esce. Le altre due riprendono dall’inizio e fanno esattamente quello che hanno fatto prima. Brian entra infilandosi una giacca di tweed», costringendo gli attori a eseguire l’ordine. Sarà questa la struttura dell’intera pièce, un continuo arrestarsi, spesso dopo terribili rivelazioni o dopo eventi imponderabili e assurdi, per riprendere dal principio, o da un punto di volta in volta precisato.
L’opera è insomma quella del sabotaggio, ma un sabotaggio dall’interno – un auto-sabotaggio previsto da chi scrive, scritto, testuale, organico al testo, dunque testo anch’esso, dalla portata pacificamente novecentesca: c’è Pirandello, c’è Beckett, naturalmente, e tutta quella compagnia dell’assurdo cara a Martin Esslin.
Ma l’approccio di Lisa Ferlazzo Natoli al lavoro non è altrettanto pacifico. Intanto l’attribuzione della voce della didascalia a uno degli attori se, da un lato, semplifica la gestione tecnica della messinscena, dall’altra taglia le gambe a ogni seduzione surrealista, come quando rifiuta, come si vorrebbe, di far entrare a chiudere una scena, una «frotta di bambini», o «due uomini armati» che ammazzano tutti prima di andarsene, o un «uccello alto tre metri». E, oltre a ciò, come si vedrà, pur stando al gioco dell’autrice, la chiama alle sue responsabilità, rifiutando di interpretare tutto il lavoro come un mero divertissement formalistico, usando strumenti puramente registici – ma con rara maestria.
Potremmo radunare tali strumenti, per brevità, in quattro punti, alcuni dei quali citati dalla stessa Ferlazzo Natoli nelle note di regia: un servizio da tè in ceramica inglese bianca, bordato d’oro; un tavolo metallico; luci e microfoni a vista; quattro attori principali (impareggiabili, capaci di mirabili squilibri).
Il servizio da tè in ceramica inglese bianca: il ‘kitchen sink play‘, citato da Bono nell’introduzione al primo volume dell’opera dell’autrice inglese, è il testo borghese, domestico, che Churchill invita a superare in un suo intervento del 1960. Ma superarlo significa dissolverlo, metterlo in crisi, lasciar cadere un granello di sabbia nell’ingranaggio del motore e lasciare che ne inceppi il meccanismo, grippandolo. Quel motore a pieno regime bisogna mostrarlo, prima di sabotarlo. Così le tazze da tè, la zuccheriera, le zollette, e la situazione stessa del tè, tre intorno a un tavolo, sono mantenute illustrate dalla regista.
Il tavolo di metallo: oggi va l’arredamento “industrial”, ma chi, se non per far bella figura con amici dal dubbio gusto si metterebbe in casa un tavolo di metallo, livido, freddo al contatto, che ricorda nel colore le stesse atmosfere di quel “When the rain stops falling“, con il quale Natoli vinceva tre Ubu nel 2019? Eppure che il piano di legno o fòrmica di una comoda cucina viri in un tremendo oggetto di ferro è un segno strutturale (nella struttura del lavoro di regia) di quella rottura del “kitchen sink“, o del suo inquinamento, del suo virare all’acido.
Luci e microfoni: e così, ogni colpo su quel tavolo, che è un tavolo di metallo sonoro, sotto quelle batterie di luci di taglio, dichiarate, appese a due bilance ai lati del palco, ogni colpo, appunto, è un tuono che scuote lo spettatore. Perché su di esso, attorno a esso, sono applicati microfoni. Microfoni a vista di ogni tipo, panoramici, direzionali (suoni, ambienti e spazio scenico sono di Alessandro Ferroni), e ogni colpo alla struttura dato dagli attori non rimane solo un colpo alla struttura, è anche un colpo all’orecchio dello spettatore. E del personaggio, o più precisamente: dell’attore col personaggio. Parallelamente, ogni ritorno indietro non è un semplice riprendere meccanico, perché ogni evento suggerito dalla precedente scena (la telefonata che annuncia un incidente, la confessione di una perversione o di un tradimento, l’ipotesi di una trama thriller) tende a permanere, sotto forma di un’ombra, simile a un’inesorabile persistenza retinica.
Gli attori formidabili: gli attori formidabili sono il campo su cui questa persistenza si gioca. Gli attori col personaggio, come si anticipava. Se in “L’amore del cuore” c’è il Godot dell’attesa, c’è però anche il Brecht dell’adesione descrittiva al personaggio. I quattro attori sanno mostrarci la fatica di questa dipendenza dal deus ex machina della didascalia (o dell’autrice, o del testo…), ma sanno anche indicarci quella, per i personaggi, di tornare sul già detto, sul già vissuto, lo sforzo di venire a patti con la meta a cui si è giunti e poi di essere costretti ad andare comunque avanti – o indietro, e ricominciare, come ogni giorno ci tocca ricominciare a vivere.
«E siamo qui, ancora vivi, di nuovo qui / Da tempo immemorabile / Qui non si impara niente / Sempre gli stessi errori / Inevitabilmente gli stessi orrori / Da sempre, come sempre»: sia consentita, nella incresciosa coincidenza con il lutto e l’indigestione citazionistica del musicista siciliano, una citazione dal Battiato de “Il vuoto”.
Se non vogliamo accontentarci del trito tema della “dissoluzione della forma teatrale”, è questo uno dei punti a cui sembra mirare quella ripetizione del quartetto di Churchill. Come sineddoche dell’esistenza, la reiterata attesa di Susy nei corpi degli attori che impersonano i suoi parenti, e le innumerevoli variazioni sul tema della famiglia e dei rapporti sotto il fuoco della violenza di un autore-tiranno, pronto non solo a scagliar loro imprevisti e cataclismi, ma soprattutto a riavvolgere infinite volte il nastro delle loro esistenze, significano l’eterno ricadere sulla medesima pena, sulle medesime frustrazioni del corpo umano tranquillo, occidentale, borghese. Il destino di Sisifo col suo macigno e la sua scalata sempre tutta da rifare.
Nel finale, l’immagine di una testa di struzzo proiettata sul fondo richiama la didascalia del testo che si citava prima, sull’«uccello di tre metri». Ma è forse anche immagine di quel corpo tranquillo, occidentale, borghese. Ottuso, si guarda attorno e pare che deglutisca: lo struzzo che ingolla tutto, come ammoniva il bestiario delle nonne, pronto a digerire pure i sassi.
Insomma, l’evasione dalla gabbia della struttura è insieme condanna, impossibilità di fuga da quella della vita.
L’AMORE DEL CUORE
di Caryl Churchil
un progetto de lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli
con Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Francesco Villano e con Angelica Azzellini
suoni ambienti e spazio scenico Alessandro Ferroni
luci Omar Scala
immagini Maddalena Parise
costumi Camilla Carè
aiuto regia Flavio Murialdi
foto di scena Sveva Bellucci
comunicazione Margherita Masè
traduzione: Laura Caretti e Margaret Rose
una produzione Teatro Vascello La Fabbrica dell’attore e lacasadargilla
con il supporto di Theatron Produzioni
con il sostegno di Bluemotion
durata: 55′
Visto a Roma, Teatro Vascello, il 23 maggio 2021