Giovedì scorso si è inaugurata a Merate, nella Brianza più profonda, la quinta edizione di Caffeine, rassegna di danza contemporanea ideata, organizzata e diretta dall’associazione Piccoli idilli, che porterà la danza fuori dagli spazi convenzionali: oltre ai classici appuntamenti in teatro, infatti, compagnie e performer si esibiranno anche in ville, piazze e addirittura nella sala consiliare di Robbiate.
Un mese (la rassegna terminerà il 18 ottobre) di incontri e performance di danza per «raccontare con spettacoli semplici la complessità della contemporaneità», sottolinea così Filippo Ughi, direttore artistico del festival.
Appuntamento clou della manifestazione sarà lo spettacolo “Nessuno sa di noi”, in programma per venerdì, 26 settembre, al Cenacolo francescano di Lecco con Julie Anne Stanzak e Mattia Peretto.
La danzatrice, membro della compagnia Tanztheater Wuppertal fondata da Pina Bausch, si esibirà con il ballerino bolzanino affetto da sindrome di Down.
Per l’occasione abbiamo intervistato il regista dello spettacolo, Antonio Viganò, storico direttore del Teatro La Ribalta di Merate e fondatore, a Bolzano, dell’Accademia Arte della Diversità.
Che effetto ti fa tornare a Caffeine, nei luoghi dove hai iniziato il tuo percorso artistico?
E’ il mio luogo di nascita, sia anagrafico che teatrale. Non ho mai perso i contatti e in quel posto ho ancora la mia casa. Ho lasciato segni, progetti che ho fatto nascere e rimangono lì, ancora vivi e attivi: la rassegna di teatro ragazzi, i circuiti teatrali lombardi e Campsirago Teatro. Quest’ultima, quella di Campsirago, è per me una ferita profonda: non ho condiviso quella ristrutturazione profonda, quel cancellare un’anima e le promesse non mantenute. [Viganò fa riferimento al paesino di Campsirago dove negli anni ’90 faceva un festival unico, di ricerca non solo italiana, in cui ancora non c’era la strada asfaltata, con poche case dismesse e in cui si stava in tenda. Ora tutto è stato rimesso a nuovo, ndr]. Si è giocato “sporco” in quel luogo e io, come il teatro La Ribalta, siamo stati “giocati”. Poi, come diceva Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene via. Ma sai che quando torni c’è qualcosa di tuo che resta lì ad aspettarti”.
Parlaci del progetto dell’Accademia Arte della Diversità. Come è nato e come si sviluppa?
Ho avuto voglia di dare caratteristiche di progetto e stabilità ad un’attività che pratico da 25 anni. Incontrare vite e mondi diversi: ho iniziato con l’esperienza degli Oiseau Mouche e volevo creare una situazione simile in Italia. In Alto Adige è stato possibile. Adesso c’è una compagnia teatrale con all’interno anche uomini e donne che, nonostante abbiano uno statuto da soggetti “svantaggiati”, possono svolgere la loro attività di attori e danzatori in forma professionale.
Lavorano ogni giorno per cinque ore in teatro, fanno spettacoli, laboratori, formazione e tournée in Italia e all’estero, come una qualsiasi compagnia teatrale. Sono iscritti all’Enpals e hanno statuto e salario che meritano per il loro lavoro di attori e danzatori. Siamo gli unici, in Italia, ad aver raggiunto questo risultato.
Adesso ci assumiamo la responsabilità di fare solo ed esclusivamente cultura, chiedendo di essere giudicati e guardati per quello che facciamo e non per quello che siamo. Una bella scommessa, ma difficile.
Mettere in scena danzatori professionisti diversamente abili cosa comporta?
La fatica di dover essere “bravi” due volte: la prima per cancellare e combattere tutti i pregiudizi che ci accompagnano, la seconda per fare un lavoro di qualità artistica. Le due cose vanno insieme perchè il più delle volte la “condizione” che portiamo in scena deve essere dimenticata e diventare subito solo “comunicazione”. Ci vuole un pò di tempo perchè lo spettatore dimentichi la “condizione sociale” degli attori che vede in scena, ma solo con un’alta qualità artistica riusciamo ad obbligare lo sguardo dello spettatore in un’altra direzione, ossia verso la “comunicazione”.
La sola terapia che facciamo credo sia quella rivolta allo spettatore, perchè possa modificare il suo sguardo.
Ti piace mescolare questi danzatori con altri attori e danzatori…
In quel lavoro sul palco ognuno a modo suo è uguale e diverso.
Non vogliamo rendere tutti uguali, ma moltiplicare le differenze. Non vogliano “celebrare la diversità” ma rappresentarla, valorizzarla, darle voce e capacità teatrali. Diciamo spesso di non essere il “teatro dei diversi” ma di appartenere alla esperienza storica e culturale che chiamiamo “il teatro della diversità”. Sono due cose distinte che è meglio separare.
Hai lavorato spesso con Julie Anne Stanzak; come create i vostri lavori?
E’ dal lontano 1992 che collaboriamo. Con Lei ho condiviso la storia bellissima del Teatro la Ribalta degli anni ’90, con spettacoli importanti come “Ali”, “Fratelli” ed altri. Poi sempre lei mi ha accompagnato nel lavoro con la Compagnie de l’Oiseau Mouche in Francia. E poi ancora al Théatre Grand Bleu a Lille.
Con lei lavoro benissimo, sino ad oggi non ho mai trovato nessuno con quelle capacità coreografiche ma sopratutto con la capacità di saper “cogliere” gli attori con i quali lavora. Ogni persona, ogni corpo, è per lei un danzatore potenziale, una narrazione poetica. Non perchè interviene a metterlo in forma (cosa che è logica e scontata per una coreografa) ma perchè sa “vedere oltre”, trovare le motivazioni affinché quel corpo, con il suo muoversi nello spazio, nella sua relazione con il mondo, si faccia danza.
Quali sono stati i doni più grati che ti ha lasciato Pina Bausch?
Lasciamo perdere la retorica delle celebrazioni, che certe volte arriva alla “santificazione” di Pina Bausch, una santificazione che non piace e combatte la stessa compagnia del Tanztheater di Wuppertal.
Per me è quello che dicevo prima a riguardo al lavoro con Julie Stanzak, e che Pina Bausch sintetizzava in forma poetica dicendo: “Non mi interessa come danzi ma il perchè danzi”. Qui c’è l’essenza del suo lavoro. La forma, che è il veicolo per trasportare l’essenza, viene dopo.
Al Teatro Cenacolo Francescano di Lecco presenterai “Nessuno sa di noi”. Un’anticipazione?
Per anni lo abbiamo pensato e sognato. Da quattro anni abbiamo una relazione stretta con il Festival BolzanoDanza che ha co-prodotto gli spettacoli “Minotauro” e poi “Il suono della caduta”. Quando gli abbiamo parlato di questa possibilità, con anche i rischi che comportava, il loro entusiasmo e disponibilità ci hanno permesso di realizzarlo. Non era facile immaginare un duo con due corpi così diversi: uno allenato, costruito per la danza, con un patrimonio fisico e culturale importante come è quello di Julie Stanzak; l’altro, di Mattia, un corpo che si fa danza per necessità, con codici diversi, con una “sua personale narrazione”.
Il rischio era che fossero, in scena, impari. Il lavoro è stato trovare l’equilibrio: il solo incontro di quei corpi diversi poteva essere la narrazione dello spettacolo. E così è stato: Julie cerca Mattia per tutto il tempo, e questo cercarsi è la drammaturgia dello spettacolo.