Apocatastasi di Teatro Akropolis. Una danza nell’Ade per donne senza volto

Photo: Clemente Tafuri
Photo: Clemente Tafuri

Roberta Campi e Giulia Franzone protagoniste dello spettacolo firmato da Clemente Tafuri e David Beronio 

Presentato in occasione della 13^ edizione di Testimonianze Ricerca Azioni e poi ospite del festival Teatri di Vetro a Roma, “Apocatastasi” è la produzione di Teatro Akropolis di questa stagione, riproposta in scena a Genova il 4 marzo.
I registi dello spettacolo sono Clemente Tafuri e David Beronio, anche direttori di Akropolis, realtà genovese che si è affermata negli anni nel panorama nazionale con qualità, coraggio e uno sguardo volto alla produzione e allo scouting di nuovi registi, coreografi e performer, che trovano in Akropolis una casa-residenza in cui poter coltivare e nutrire le proprie idee e creazioni, senza dimenticare l’attenzione alla linea editoriale.

Per questa “Apocastasi” Beronio-Tafuri affermano che l’ispirazione principale è portata dalle danze dell’Ade, in particolare quelle dell’affresco di Luca Signorelli raffigurante “La resurrezione della carne” nella cappella di San Brizio del duomo di Orvieto, che ritrae una scena in cui i morti, chi sotto forma di corpo, chi di scheletro, emergono dalla terra e si riuniscono, alcuni nell’atto di una vera e propria danza.
La mente va alle danze macabre medievali, con quella commistione di vita e morte, divino, profano e luciferino, magistralmente richiamate da Ingmar Bergman nelle scene finali de “Il settimo sigillo”; eppure le danze dell’Ade vanno un gradino oltre: essendo dell’Ade, non appartengono a noi vivi, ma sono quanto di più metafisico e concettuale concepibile, idealizzazione di una realtà altera che esiste nel basso, nel regno delle ombre, negli inferi.

Essere oltre la vita e le sue leggi comporta, secondo Tafuri e Beronio, agire in assenza dei due riferimenti fisici per eccellenza: lo spazio e il tempo. Da qui le scelte estetiche e poetiche di questa rappresentazione: la scena (o meglio la scena-campo) è uno spazio nero indefinito, che emerge da un’oscurità avvolgente, illuminata dall’alto con un tono caldo ambrato; il tempo (e il senso del tempo, o meglio del non-tempo) viene portato e negato dalla partitura per quattro fiati firmata dal Maestro Pietro Borgonovo, una composizione spesso dissonante e fluida, quasi liquida, come il suono potente e amplificato (poiché eseguito da quattro elementi, il Mademi Quartet) di un pifferaio magico ancestrale e mitico.

Le dissertazioni filosofiche però, trattandosi di spettacolo dal vivo, prendono forma soltanto nel momento in cui si scontrano con la natura fisica della rappresentazione, incarnandosi nei corpi delle due performer.
Le due figure, corpi in presenza e in movimento, sono contraddistinte da due negazioni fondamentali che le caratterizzano e le de-caratterizzano allo stesso tempo: di loro non vediamo mai il volto (se non per alcuni fortuiti attimi) né sentiamo mai le voci.
Roberta Campi e Giulia Franzone abitano la scena, agiscono, si muovono in quanto corpi ma non in quanto identità, poiché queste vengono in qualche modo loro negate dalla scelta di nasconderne i volti dietro folte acconciature portate in avanti, una trovata tanto semplice quanto efficace.
Collegandoci al mito e alla vista negata, si potrebbe quasi parlare di un’azione orfica, dal momento in cui ci è tolta la vista diretta dei visi delle attrici, così come a Orfeo, negli inferi, veniva negato lo sguardo della defunta amata Euridice per “resurgerne” la carne, azione dichiarata nell’affresco del Signorelli.

Il risultato scenico è che ci si concentra sulle azioni, sui gesti, sulle linee dei corpi e dei vestiti color terra, sugli stivaletti, sui respiri, sulla tensione da prossimità fra le due performer.
Prima di agire insieme, le due donne esprimono la propria individualità attraverso il gesto, esistono come due monadi, austere e al contempo erotiche, con tremiti, stretti abbracci a sé che diventano colpi violenti, autoinflitti, pose accucciate e ripiegate faccia a terra sul più intimo sé.

La vicinanza tra i corpi genera attrazione e repulsione, si creano momenti di cortocircuito in cui il contatto si esprime con atti violenti, talvolta violentissimi; ecco quindi che l’immagine di una mamma che allatta diventa una madre divorata prima nelle viscere e poi nell’inguine, con calci, sputi, percosse, mani che si insinuano prepotenti nella bocca dell’altra, tensioni affilate e gesti che paiono quasi di tortura.
Ma esistono anche passaggi più distesi, in cui i due corpi si fondono insieme e lo spettatore non sa distinguere dove inizia uno e dove finisce l’altro.

Assai attraenti risultano i brevissimi istanti in cui il movimento fa scoprire per un attimo il volto delle performer, e la rivelazione dei lineamenti umani di queste giovani donne diventano brividi quasi luminosi, barlumi di rincuorante umanità; ma anche la camminata finale di Roberta Campi, in cui l’elemento tempo, nella sua astrazione, prende corpo diventando tangibile, con l’attrice che assume un’andatura sempre più china e claudicante, rattrappendosi e accucciandosi verso la sua forma più terrena e accartocciata.

La parte centrale della pièce, caratterizzata da un netto cambio musicale (e da un cambio di strumenti), consiste di un movimento barocco tipo rondò, a cui corrisponde una danza-non danza fatta di camminate, scambi di posizione agiti sullo scandito solfeggio del brano.
Questa sezione, apprezzabile per composizione e disegno coreografico, che sottolinea la transdisciplinarità dell’allestimento, perde un po’ d’intensità ma soprattutto di intenzione; la danza e i movimenti asfaltano quasi del tutto la semanticità del gesto, si avverte insomma un abbassamento di registro che svuota l’azione di motivazione e la tramuta in una scrittura fisica quasi priva di drammaturgia, fatta di pose e scambi, per poi tornare, nella terza e ultima parte, alla situazione iniziale – ben più conturbante – del gioco al massacro, con la musica di Borgonovo.

Il momento degli applausi rivela la novità di questa replica rispetto alle precedenti: la partitura del musicista viene eseguita dal vivo dal Mademi Quartet, in una sala attigua, con microfoni a presa diretta e amplificati.
È in fondo questa la vera natura di “Apocatastasi”: lo sguardo negato, la realtà delle cose non solo non concessa ma propriamente impedita. Condotto a fine spettacolo, il pubblico capisce di essere stato veramente guidato dalla lira suonata da Orfeo, e di essersi salvato dalla minaccia dell’Ade solo in qualità di testimone dell’unica verità possibile a teatro: il gioco tragico della finzione.

APOCATASTASI
Compagnia Teatro Akropolis
Regia: Clemente Tafuri, David Beronio
Con: Roberta Campi, Giulia Franzone
Musiche originali: Pietro Borgonovo eseguite da: Mademi Quartet
Produzione: Teatro Akropolis
Coproduzione: GOG – Giovine Orchestra Genovese

Durata: 40′
Applausi del pubblico: 4’

Visto a Genova, Teatro Akropolis, il 4 marzo 2023

 

 

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