Appunti da Voci di Fonte 2010. Dalla critica alla cronaca

Caspar David Friedrich
Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, Amburgo, Kunsthalle
Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, Amburgo, Kunsthalle

Prima volta a Voci di Fonte. Sì, questo pezzo comincia esattamente come quello precedente. Perché credo che il punto sia lì, in quelle due parole con cui la frase attacca, senza bisogno d’articoli. La “prima volta” che frequento un festival nella maniera più completa possibile, dalla sistemazione in albergo all’incontro con l’ufficio stampa (un’efficientissima Raffaella Ilari), da un aperitivo con il direttore Angelo Romagnoli alla discussione con l’organizzatrice Elena Lamberti ai tavoli di un bar dove – quando meno te l’aspetti – compaiono le gemelle Pasello, Silvia e Luisa. Da uno scambio di idee e di bicchieri di rosso della casa con Biancofango, Attilio Scarpellini e Simone Nebbia alle fughe con quest’ultimo per i vicoli di Siena, in cerca di un bar dove vedere il rigore dell’Italia contro la Nuova Zelanda, sotto la pioggia di uno strano giugno.

Se davvero vogliamo, come vogliamo, offrire qui un pezzo che funga da bilancio consuntivo del nostro frammento di festival, sono forse queste immagini a restituire il senso più fedele di uno “stare nel mezzo”. Ed ecco perché queste righe arrivano da sotto l’ala scomoda e necessaria delle “esternazioni”. Perché mai come in questo momento chi, come me, tenta di prendere posto nel gruppo di energie (o velocità) che farà la differenza della nuova critica sente l’urgenza di dire la propria, di esternare, di dichiarare a tutti che quello che occorre è un colpo di coda. Io che a teatro mi sedevo all’ultima fila e sgattaiolavo via appena finito di cronometrare gli applausi, proprio io sono diventato, mi accorgo, un animale sociale, quasi socialista. E lo sono diventato per necessità, perché “bisogna metterci la faccia”, bisogna dimostrare al pubblico e agli artisti che abbiamo voglia di sporcarci le mani. Se poi quelle mani serviranno a sostenere o a bloccare poco importerà, saranno state mani consapevoli, sporche dello stesso fango in cui si agitano tutti gli abitanti di questa grande fattoria. Un po’ come i tatuatori, dei quali ti fidi di più quando sono coperti loro stessi di tatuaggi. Mi sembra l’atteggiamento più giusto, da un punto di vista politico ma innanzitutto da un punto di vista umano, affinché questo sia davvero un lavoro che nobilita (noi e chi a noi si rivolge), prima ancora di diventare un mestiere.
Allora quei grezzi biglietti da visita – stampati un po’ per narcisismo –, messaggeri di me e promemoria di “info” che rimandano a righe come queste accade che vorrei strapparli, che li detesti per il solo fatto che sotto il mio nome e cognome scrivono “giornalista – critico teatrale”. Un documento ufficiale che ci definisca non esiste, non ancora, niente di scritto ci detta come e cosa dobbiamo scrivere, ma qualcosa di sentito ci suggerisce chi dobbiamo essere. Dove dobbiamo stare. E la risposta è nel mezzo. Provare per credere. Ecco perché non “facciamo i critici”, ma “siamo cronisti”. E da cronisti elenchiamo qui i frammenti raccolti in tre giorni, che messi insieme compongono lo specchio dell’esperienza stata.

E allora, dopo la prima giornata di cui davamo conto qui, c’era stata una mattinata di lavoro per trovare le parole giuste a confrontarci con un “errore” – quello di Anna Tereshchenko –, trovando poi la soluzione nel confronto con le energie positive di Biancofango; c’era stata, per impegni d’altro lavoro, una mia fuga in solitaria verso Firenze su strade di auto poche e pioggia piccola; c’era stato il ritorno a Siena e il riconquistare di certi sguardi nel cortile delle Fonti di Pescaia, con le Altre velocità di Serena Terranova e Alessandra Cava; con Simone e Attilio c’era stata una chiacchierata sulla rivoluzione teatrale da tirare su insieme ad altri, Francesca Macrì e Andrea Trapani in testa; c’era stata una virata verso discorsi più semplici, dalla vivibilità di certe città ai Mondiali in Sud Africa, ché anche lo spirito vuole respirare.
Domenica c’era stato un risveglio affrettato per unirsi alla presentazione dei pezzi finalisti al Premio Lia Lapini 2010. Vincenzo Schino e la sua Opera presentavano 20 minuti di “Sonno”: il talento visivo e di ragionamento che già avevamo visto in “Voilà” e “Limite” ha avuto un’esplosione di creatività in questa variazione sul tema dell’ipnosi e della creazione. Tra maschere, uomini-ombra, pittura goyana, filosofia nera e spremuta di Macbeth, quello di Schino è stato uno “studio” nel senso più profondo del termine, con tanto di incursioni dell’autore che suggerivano idee alle orecchie degli attori. Vera “scrittura di scena”, di cui il premio si occupa.
Pieraldo Girotto
ha presentato l’abbrivio di “Una sporca messinscena”, drammaturgia originale che muove da Ravenhill, Koltes e Crimp verso un dialogo formalmente rigoroso che porta il segno dell’Accademia degli Artefatti da cui Girotto proviene e a cui torna fin troppo spesso, cavalcando quello stesso ritmo e quell’ironia vincente (soprattutto nella propria interpretazione) e destrutturando la teatralità in schiaffi di crudezza da luce a neon e tagli cinematografici. Eppure la perplessità resta nel senso forse troppo compiuto che certe frasi sceniche hanno già in quello che invece dovrebbe essere uno studio che “diviene” sul palco. Oltre ad aggiungersi la riflessione – che sarà poco tempo dopo materiale per un’accesa discussione con Elena Lamberti – se questa emergenza contemporanea da “scioglimento dei poli” abbia o no bisogno davvero di chi un proprio rifugio ce l’ha già, anche ben approvvigionato.

Terza finalista era Roberta Sferzi (compagnia L’Angelo Ragazzino) che nei 12 minuti di “Sotto avverso ciel, luce più chiara” dava voce alle cupe ansie dello scrittore/filosofo Carlo Michelstaedter. Un lavoro con spunti interessanti fin dall’inizio ma che non riesce a separarsi da un’eccessiva esteriorità, che forse non è l’unica via che porta all’efficacia sulla breve durata. Prova di questo ci veniva infatti offerta subito dopo, dalla magnetica parafrasi de “Il Castello” di Kafka declinata da Silvia Pasello sotto il titolo “L’indesiderato”. Francesco Laterza era un ipnotico guardiano, Pasello un “agrimensore” di rara eleganza. Eppure c’era qualcosa di non limpido, qualche indugio sui tempi di un teatro di parola e stasi che forse mal si adattavano al senso di un lavoro finalista che deve mostrare il maggior numero di aperture, deve farsi prisma per quei raggi che l’attraverseranno in corso d’opera. E Schino, che nel tardo pomeriggio sapremo – come si sperava – vincitore di questa terza edizione del Lia Lapini, ha questa forza, questo talento. E l’età giusta per farlo germogliare al ritmo di uno stile che già “è” e che non vede l’ora di affilare le facce del proprio prisma. Tra un anno lo vedremo debuttare e ripenseremo a quando, nel cortile della sala, la sua dimostrazione alle spalle, ci raccontava di voler anche “rischiare di fare errori”. C’è qualcosa di più necessario di questo per far sì che una ricerca restituisca risultati?

C’era poi stata una fuga per le vie di Siena finendo per vedere il secondo tempo della partita in un bar con Andrea e Francesca (Biancofango in partenza), prima di tornare a lavorare in stanza. Dell’esito della premiazione avevamo avuto notizia da Schino stesso, mentre facevamo i conti con un piatto di pici al ragù di cervo. Buone sorprese erano state i due spettacoli della sera, “Senza Lear” di Isola Teatro e “La Festa” di Francesco Pennacchia/laLut. Del primo avevamo già pubblicato una recensione qui, ma chi lo avesse visto allora lo rivedrebbe oggi con interesse rinnovato, ché il lavoro è cambiato molto. Un prato finto delimita lo spazio, due panchine neutre lo organizzano, due attrici (Elisa Porciatti e Laura Riccioli) e un attore (Armando Iovino) si scambiano le coscienze di personaggi multipli, ruotando attorno alle tribolazioni di Goneril, Cordelia e Reagan, cui è stato chiesto di dimostrare il proprio amore di figlie a un padre che – lo dice il titolo – non si vede mai. La recitazione è curata nei minimi dettagli dalla forza critica di Marta Gilmore, serva riverente dell’improvvisazione e della drammaturgia collettiva che le valsero il Lia Lapini 2009 e il successo in altri spettacoli che ancora girano bene. Girerà bene, sempre meglio, anche questo “Senza Lear”, che corre sul filo delicato della propria reale essenza, quella dell’ironica analisi incrociata di tre psicologie e della loro – come dire della nostra – fragilità. Se uno spunto di lavoro rimane a Isola Teatro, potrebbe essere quello di non perdere mai l’attenzione alle potenzialità di questo serrato scambio, al fatto stesso che quella fragilità riesce efficace e forte quando la si mostra in scena come risultato di un lavoro sottile di sguardi e suggestioni che non muoiono in un testo, ma vivono in tre corpi.
Con “La Festa” Pennacchia riprende in mano Pinter e lo nasconde in un lavoro estremamente personale, che fa della penombra il proprio ambiente naturale, del sussurro il proprio tono preferito, del frastuono il proprio grado di crudeltà, del segnale disturbato la propria poetica. In uno strano modo, questo rumore di fondo somiglia al caos che regnava in scena nel suo “Il custode”. De Gregori cantava che “i matti vanno contenti […] trasportando grandi buste di plastica […] piene di freddo e rumore”. Ecco, freddo e rumore (in uno strano senso buono) è quello che lascia dentro l’anomala prova di Pennacchia, il quale tenta di mostrare con un’estetica tutta propria un interno borghese spiato dagli occhi nascosti di un parassita che aspetta la preda. Un lavoro sul voyeurismo, una sperimentazione audace alle cui motivazioni e al cui fulcro drammaturgico forse manca ancora qualche mano di vernice, ma che di certo si conferma di alto livello.

C’era stata una serata finita poi al Macondo (tana del catering del festival) a scambiarci qualche ultima suggestione, prima di una silenziosa passeggiata “a bordo Campo” fino a casa. C’era stata un’ultima colazione, un passaggio al Consorzio Agrario per qualche prodotto tipico, un ultimo caffè nella piazza del Palio dove, con Simone e Attilio (miei compagni di viaggio anche al ritorno) tornavamo a parlare di quell’emergenza che ci riunisce così spesso davanti agli stessi teatri, intorno agli stessi tavoli, passando gli occhi attenti uno sulle pagine scritte dall’altro.
Abbandoniamo il tempo passato e chiudiamo con il futuro semplice (nemmeno tanto): avremo ancora modo di prendere posizione, di “esternare”, saremo sempre più cronisti. E così recupereremo l’accezione greca (e anglosassone) del termine “critico”, che ci rimanda direttamente alla creazione di un momento di “crisi”. Sapevate che “krisis” in greco tiene al verbo “krino” che significa “separare, dividere”? Io no. Ma tutto torna. Ed è un sollievo.

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