Arcuri e il Candide di Ravenhill: un dolore assoluto, crudo e allegro

Photo: Teatro di Roma
Photo: Teatro di Roma

Eterogeneità di linguaggi ma omogeneità di stile: è una prima chiosa per cominciare un discorso che dovrebbe essere molto lungo, ma che sarà breve, sul debutto del “Candide” di Mark Ravenhill, messo in scena da Fabrizio Arcuri, nuova produzione di Teatro di Roma.
Il testo – riscritto dal drammaturgo inglese nel 2013 – è dichiaratamente contemporaneo, anzi contemporaneistico, libero da ogni legaccio teorico strutturale, e però mostra, anzi nasconde (e quindi mostra), uno scheletro solido, persino classico nella sua anticlassicità.

Diviso in cinque/sei scene (cinque atti più prologo?) sparpagliate nel tempo, ripercorre nella prima, nella quarta e in parte nell’ultima, la parabola volteriana di Candido, l’illuso pseudo-philosophe che segue la teoria spinoziana del “migliore dei mondi possibili”: in queste scene, costumi e tutto sono perfettamente in stile Settecento, persino linguaggio, lazzi eleganti e sornioni.
Nelle altre scene (la seconda, la terza, la quinta/sesta), con voli siderali d’andata e ritorno, ci riporta all’oggi, e valendosi dell’attrazione all’immedesimazione di parole, gesti e costumi contemporanei, ci catapulta in una famiglia dei nostri giorni, nella quale esplode un folle dramma.

Siamo d’innanzi alla grande e spaventosa scena della strage domestica, evidenziata da una scenografia che s’impone con lo scheletro di una casetta. Qui una famiglia borghese qualunque festeggia un compleanno.
La ragazza di casa, la figlia triste, in una imprevista ma lungamente covata epifania del male come verità assoluta e storica, attuale, ammazza uno dopo l’altro i parenti: il padre, la sua compagna, il fratello, il vecchio nonno. Sola a scamparne è la madre, perché riesce – in uno scatto di autoconservazione – a rivoltare contro la figlia la pistola, e a riversare l’atto di morte su di lei (così la generazione dei nostri padri e delle nostre madri continua a sopravviverci, esistenzialmente e non solo).

Eterogeneità di linguaggi quella del testo, omogeneità di stile, quello ormai noto di Arcuri, che con una tiepida e colorata leggerezza, efficace, infilata persino là dove non si penserebbe – persino nel dramma -, lo asciuga senza spuntarne o appannarne il filo.

Una seconda chiosa, a questa collegata: si può parlare del Male, del male che informa e persino spiega la nostra vita, la nostra essenza, senza calarsi nella tristezza. Come Leopardi ne “La Palinodia al Marchese Gino Capponi”, in quella geniale falsa ritrattazione del vero, il tremendo vero, che causticamente lo riafferma: «Errai, candido Gino; assai gran tempo, / e di gran lunga errai. Misera e vana / stimai la vita, e sovra l’altre insulsa / la stagion ch’or si volge…». La vita, in genere, e la stagione, in particolare, come per Ravenhill. E “candido”, chiamava Giacomo il suo interlocutore, curiosa coincidenza.

Si può persino parlarne, dunque, di quel dolore: la madre scampata alla strage, dopo un umiliante percorso psicologico di riabilitazione in cui la terapeuta diventa una sorta di balia iperprotettiva, viene contattata da un produttore col pelo sullo stomaco perché, insieme a uno sceneggiatore in voga, tragga un film dal proprio vissuto.
Il percorso di stesura si dipanerà in tre versioni, che una dopo l’altra – da un minimo di realtà e un massimo di edulcorazione – trascineranno l’autrice fino a un parossismo di cruenta ferocia, di realtà corrosa dal male, e la porteranno a licenziare sceneggiatore e psicologa, e ad essere a sua volta scaricata dal produttore, disgustato dal prodotto finale, puro e perciò invendibile.

Terza chiosa. L’arte non è soluzione al Male, e questo si sapeva, ma non è balsamo e non è ricomposizione se non a un patto: che rinunci ad andare nel mondo, che si rinchiuda esclusivamente nella bolla di un’operazione tutta personale, senza conciliazioni col pubblico.

Fin qui, senza freni – siamo alla quinta/sesta scena –, il testo e la regia divorano il tempo, con l’ambizione alta di filosofeggiare e l’opulenza di fare un teatro con tante scenografie (impostate nello spazio di volta in volta in modo diverso), tanti costumi, tanti attori, una musica spessa e trascinante, tutta live eseguita da H.e.r. su violino elettrico e live electronics.

Il finale è insistito, e ha la forma di una metafora forse inutile: una clinica per curare l’ottimismo, in cui – in una sorta di sonno criogenico – la madre si risveglia e conversa proprio con Candide, il vecchio ottimista.
La parola “ottimismo” è ripetuta più e più volte, e con prolissità un po’ sfocata si tenta di tirare le somme di quanto era già perfettamente chiaro prima – e qui forse Arcuri paga la cortesia di aver evitato tagli al testo.

Ma rimane davvero indelebile la forza delle scene centrali, e come sia stato rinnovato il tema dell’assurdità di ogni illusione; con rispetto ma anche disinvoltura trascinato un Settecento spogliato dagli orpelli di ogni ‘settecentismo’ a parlare con la contemporaneità, tanto da mostrarci sulla nostra pelle il segno indelebile, stavolta astorico, dell’«arido vero».

CANDIDE
di Mark Ravenhill
regia Fabrizio Arcuri
traduzione Pieraldo Girotto
con (in o. di a.) Filippo Nigro, Lucia Mascino, Francesca Mazza, Matteo Angius, Francesco Villano, Federica Zacchia, Domenico Florio, Lorenzo Frediani, Giuseppe Scoditti, Francesca Zerilli
e la partecipazione straordinaria di Luciano Virgilio
musiche composte, arrangiate ed eseguite dal vivo da H.e.r.
scene Andrea Simonetti
costumi Fabrizio Arcuri
video Luca Brinchi, Daniele Spanò
live visual Lorenzo Letizia
assistente alla regia Francesca Zerilli
assistente ai costumi Valeria Bernini
in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina

durata: 2h 10’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 2 marzo 2016
Prima nazionale

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