Arkadi Zaides e “The Cloud”: la nuvola e lo specchio

The cloud (ph: Giuseppe Follacchio)
The cloud (ph: Giuseppe Follacchio)

Il corpo e il confine verso l’esterno, dalla nube radioattiva di Chernobyl all’avvento dell’Intelligenza Artificiale. In prima nazionale alla rassegna romana “Corpi in ascolto”

Un vecchio luogo comune del teatro sentenzia che quanto il pubblico vede dalla platea non sia che un proprio rispecchiamento. Da un lato la messinscena oggettivizza la vita, la imita e la riversa alla fonte che l’ha generata, noi; dall’altro, sul filo della ribalta è come innalzato uno specchio, e in definitiva osserviamo sempre noi stessi, indipendentemente da ciò che si agiti oltre quel confine, come quando si dice che, in fondo, leggiamo sempre un unico libro, perché oltre noi stessi non possiamo comunque andare.

Ma allora quale spaesamento, quale squilibrio prende il pubblico di fronte al nuovo lavoro di Arkadi Zaides, “The Cloud”? Dove siamo noi, dentro a quella massa spaventosa? In cosa, ciò a cui assistiamo, ci riguarda?
Lo spaesamento, di fronte allo spettacolo in prima nazionale nell’ambito di “Corpi in ascolto”, un progetto di Orbita|Spellbound, può convertirsi in attonimento, in rabbia, in distanza, perché a segmenti di quiete, quasi di stasi vegetativa della materia sul palco (un vicino di posto si assopisce), si affianca e si sovrappone una richiesta concettuale alta e severa. Assistervi è dunque tutt’altro rispetto al gioco a indizi a cui parrebbe invitare l’omonimia del titolo tra il “cloud” della Rete e la nube radioattiva di Chernobyl, la cui effusione condizionò i primi anni di vita del coreografo bielorusso.
Il compito del pubblico non si esaurisce insomma in un’operazione di scioglimento di un lavoro costruito sopra un’arguta tesi, un lavoro che avrebbe allora – in questa concordanza di significanti – il proprio fine. Eppure la qualità della nuvola, un’entità in imperscrutabile fluidità di forma e volume, di una persistenza di durata imponderabile, di un’organizzazione mobile di elementi capace di crescere su sé stessa, è presente, e in parte costituisce la struttura del lavoro di Zaides. Basta seguirne lo svolgimento.

Una prima parte di “The Cloud” è quello che, in altri emisferi teatrali, si chiamerebbe un monologo. Seduto su uno sgabello, a leggio a centro palco, Zaides legge su un tablet un lungo testo in inglese (la traduzione è consegnata stampata al pubblico) in cui a memorie autobiografiche si alternano notizie storiche sulla questione della centrale ucraina. La lettura è affiancata, su due enormi schermi, da un’applicazione di scrittura sotto dettatura. Il palco quadrato è centrale rispetto a due lati di platea, la parete sinistra e quella di fondo ne sono occupati; ai piedi della prima sta un lunghissimo tavolo di regia. La composizione del testo sugli schermi sottopone il dettato all’alea di una eventuale incomprensione anche radicale (un “and succesfully” viene percepito antinomicamente come “unsuccesfully“, ad esempio).

Successivamente quei dati di realtà evocati sono sistemati sugli schermi da una seconda applicazione di IA in un diagramma fitto di linee e collegamenti, continuamente rigenerantesi e in nuova collocazione – questa sì una nuvola di significati disponibili ad accavallarsi, a ricercarsi quasi da sé un ordine, mai definitivo.
Intanto il cavo, l’asta del microfono e lo sgabello sono disposti sezionati dall’autore attorno al palco, come le corde di un ring dove stia per giocare un agone disperato. Segue la proiezione di documenti filmati a Chernobyl nei giorni successivi al disastro, quelli trapelati a Ovest, riguardanti la cosiddetta squadra dei “liquidatori”, uomini dedicati alla pulizia dei detriti dal reattore esploso, laddove le macchine erano sabotate e rese inefficaci dall’imponente mole di radiazioni.
La dissoluzione dei confini, l’apparente impredicibilità della forma si concretizza ora in una modificazione del video, come sottoposto all’effetto di azioni invisibili. La voce di Zaides è via via più soffocata da un rumore e da un rimescolamento entropico che assume tratti astratti, così come il video, che abdica poco per volta alla rappresentazione, per farsi convulso e straziato. E intanto, quella disperazione che vediamo appena accennata negli occhi dei liquidatori, si esprime intera nella performance danzata di Misha Demoustier, in tuta antiradiazioni.

Ma torniamo alla domanda di apertura. Come si rispecchia, in noi, questo inesausto modificarsi dei segni in scena? E se è vero che siamo coinvolti in un rispecchiamento, cosa ci costringe a vedere di noi, in noi, “The Cloud”?

Primo, assai epidermicamente, una frustrazione delle aspettative: pur essendo Zaides un coreografo, uno scrittore di danza, e al netto delle infinite declinazioni che la danza oggi ha assunto, così come del profilo dell’opera di Zaides, di corpi in scena in movimento ne vediamo due, per lo più a turno, per una porzione non maggioritaria del lavoro. E quando un corpo appare “coreografato”, è schiacciato dalla enormità (sia in senso spaziale che storico ed emotivo) di quanto appare negli schermi. Ascoltiamo invece molte parole, le leggiamo, le vediamo organizzarsi. La coreografia è qui solo molto parzialmente quella di un corpo sulla scena: suoni, immagini, parole sono il corpo di questo lavoro.

Secondo, vediamo un continuo rimescolarsi di forme, sia nel senso della struttura e dei linguaggi che in quello proprio della conformazione del palco, ora sobrio scranno da oratore, contornato di schermi, ora agone, circondato dal cavo nero del microfono, ora spazio bianco in cui si gioca la danza straziata di Demoustier, ora pallido contorno del risultato bidimensionale del lavoro dell’IA.

Terza e più profondamente disturbante è la messa in crisi dell’oggettività del segno documentario. I filmati, le interviste, le parole che richiamano episodi realmente accaduti, l’ordinato, per quanto artificiale, diagramma in cui tutto ciò è disposto, sono soggetti prima alla creazione, ma ben presto anche al disturbo, alla distruzione (ai nostri occhi) a opera dell’AI: sono anzi oggetto della sua “libertà” ri-creatrice.
Le immagini e il suono sono tesi, storpiati, disinnescati. E così come la struttura cellulare è insidiata, attaccata, modificata nell’intimo dalle invisibili radiazioni nucleari, la storia e la realtà lo sono non soltanto dalla censura del regime sovietico e da quelle stesse radiazioni, ma da un’entità autoriale nuova, munita dei tratti dell’autonomia.

Il nostro sguardo rispecchiato coglie insomma la vulnerabilità del nostro essere corpo e del nostro essere storia; prendiamo coscienza della capacità della nostra stessa tecnologia di porre mano a un processo di decadimento, di scorporazione, di polverizzazione e de-semantizzazione. Il senso di una perdita di controllo, di un proliferare di una impalpabile, inclemente alternativa al nostro dominio consapevole sulla materia. Lo percepiamo tutti i giorni con i nostri sensi, con i nostri corpi esposti alle proliferazioni tumorali; lo percepiamo con i nostri sguardi e le nostre posture di fronte a “The Cloud”, costantemente sottoposti a scivolamento, all’impossibilità di stare in equilibrio, di tenersi insieme.

THE CLOUD
coreografia e regia Arkadi Zaides
drammaturgia: Igor Dobricic
sviluppo IA e suono: Axel Chemla-Romeu-Santos
direttore della fotografia: Artur Castro Freire
con: Axel Chemla-Romeu-Santos, Misha Demoustier/Roger Sala Reyner, Arkadi Zaides
luci: Jan Mergaert
direzione tecnica: Etienne Exbrayat
produzione: Simge Gücük / Institut des Croisements
distribuzione internazionale; Something Great
ricerca iniziale condotta nell’ambito di Sound ImageCulture (SIC) con il sostegno della Federazione Vallonia-Bruxelles e VAF – Vlaams Audiovisueel Fund
coproduzione: Montpellier Danse (FR), Charleroi Danse (BE), Maison de la Danse (FR), Mousonturm (DE), CAMPO (BE) Residency support PACT Zollverein (DE), Orbita | Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza (IT), Dialoghi / Villa Manin, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia (IT)
con il supporto: del Ministero della Cultura Francese / Direction générale de la création artistiqu;, Trust for Mutual Understanding (TMU) New York; Citttà di Ghent, Flemish Authorities e Belgian Federal Government’s Tax Shelter measure through Flanders Tax Shelter (BE), un programma di residenza parte di A.R.T. research program at La Comédie de Valence, CDN (FR)

durata: 1h 20′

Visto a Roma, Spazio Rossellini, il 21 novembre 2024
Prima nazionale

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