Armando Punzo: 30 anni nel carcere di Volterra per spezzarne le sbarre. Intervista

Armando Punzo in Beatitudo (foto Stefano Vaja)|Beatitudo (foto Stefano Vaja)
Armando Punzo in Beatitudo (foto Stefano Vaja)|Beatitudo (foto Stefano Vaja)

«Io dico che queste mura sono strane; prima le odi, poi ci fai l’abitudine. E se passa abbastanza tempo, non puoi più farne a meno: sei istituzionalizzato».
Nel bellissimo film “Le ali della libertà” l’ergastolano Red, interpretato da Morgan Freeman, prova a spiegare il legame sfuggente che si crea tra un detenuto e l’istituto in cui è recluso. Le parole di Red esprimono la condizione alienante di chi, rimasto in carcere per troppi anni, finisce per temere il mondo esterno e rifiutarlo.

Eppure il drammaturgo e regista Armando Punzo, quasi 60 anni, metà dei quali trascorsi come direttore artistico nel carcere di massima sicurezza di Volterra, ribalta il concetto proiettandolo su di sé: «Non mi pare che i miei attori siano istituzionalizzati; fuori dal carcere sono in grado di cavarsela egregiamente. Semmai sono io che non saprei concepire la mia vita professionale e artistica fuori da Volterra. Il carcere è una realtà pervasiva. A vincolarmi è soprattutto il tipo di lavoro che ho svolto in questi anni. Con attori senza una struttura o una cultura specifica. Con un approccio all’arte diretto, senza filtri».

Nel 1988 la Compagnia della Fortezza a Volterra è stata uno dei primi progetti di teatro in carcere in Italia. È vero che in una prigione si trova una maggiore autenticità?
È una semplificazione. L’assenza di sovrastrutture caratterizza chiunque non abbia alle spalle una scuola di teatro. Io sin dall’inizio ho cercato questo tipo di autenticità. Ma non mi spingo ad affermare che il carcere è il luogo della spontaneità, mentre fuori dal carcere c’è l’ipocrisia.

Quali sono dunque le particolarità di quest’esperienza?
Viviamo tutti dentro un recinto. Non è la dimensione del recinto che conta, quanto la nostra capacità di evadere attraverso l’immaginazione. Siamo liberi nella misura in cui attribuiamo all’arte un potere immaginifico, una capacità di ridefinizione della realtà. L’arte è metamorfosi. Ciò che conta è essere aperti ai mutamenti, cambiare lo sguardo sul mondo, aumentare la capacità critica mettendo in discussione sé stessi, gli stereotipi e il principio d’autorità.

Come si avvia questa metamorfosi?
La rivoluzione parte dal pensiero, precisamente dal linguaggio. Bisogna diffidare di chi mette in contrapposizione fantasia e realtà affermando la priorità di quest’ultima. Certi schematismi imprigionano. Ad esempio la televisione esprime una realtà capace solo di affermare sé stessa. Propone orrore e violenza con lo scopo di vendere. Io cerco da trent’anni di mettere in crisi la realtà attraverso la poesia. Questo aiuta a dimenticare il carcere. È questa la mia rivoluzione.

Come ci riesce?
Affinando il percorso artistico. Negli ultimi anni abbiamo analizzato Shakespeare, che è un vero e proprio archetipo dell’uomo occidentale contemporaneo. Noi ci illudiamo di essere originali, depositari di un pensiero innovativo. In realtà la filigrana di tutto ciò che diciamo o pensiamo si trovava già nelle opere e nei personaggi di Shakespeare oltre quattro secoli fa. Borges, invece, mostra un nuovo modo di ragionare, di pensare, che porti a evadere dalla realtà e dal presente. Ecco perché qualcuno dei miei attori, quando si è trovato in mano Borges, ha concluso che Shakespeare, al confronto, era ‘a pazziella ‘mman ‘e creatur: un gioco da ragazzi.

Beatitudo in teatro (foto Stefano Vaja)
Beatitudo in teatro (foto Stefano Vaja)

È questa sorta di evasione il senso di “Beatitudo”, lo spettacolo dei trent’anni che portate al Menotti di Milano da stasera al 10 febbraio?
Ultimamente cerchiamo di misurarci con drammaturgie da costruire. Con testi, cioè, che non nascono per il teatro. I personaggi di Borges arrivano da tutte le epoche a rappresentare l’universo. Funes, ad esempio, cerca di emanciparsi dalla propria memoria per ridefinire il mondo attraverso le parole. Esce da sé per vivere altre possibilità. È questa la mia idea di teatro: spazzare gli stereotipi attraverso il potere dell’immaginazione.

La bellezza come beatitudine, appunto.
Uno spettacolo brutto è dannoso non perché assopisce lo spettatore, ma perché lo riconduce a sé stesso e ai problemi di tutti i giorni. Invece il teatro come esperienza estetica permette di evadere da sé, crea buchi nella realtà, produce cortocircuiti. Non è importante ciò che avviene in scena, ma ciò che accade dentro noi stessi. Si tratta di tornare alla realtà con il valore aggiunto di quest’esperienza estetica.

E invece per lei qual è il valore aggiunto di questi trent’anni a Volterra? Che cosa resta del primo impatto con il carcere?
In tanti, quando pensano ai detenuti, si aspettano di vedere degli animali in gabbia. Io inizialmente immaginavo di dover interagire con persone stanche, indolenti, impigrite da uno stallo che si ripeteva di giorno in giorno. Mi sbagliavo. Mi si è aperto un mondo. Devo dire che qualche resistenza però l’ho incontrata. Anche da parte degli agenti, che per un po’ hanno pensato che fossi un pazzo, oppure un infiltrato della camorra. Questo non solo perché sono originario di Napoli, ma anche perché, trent’anni fa, il carcere di Volterra era pieno di affiliati al boss Raffaele Cutolo. Invece, subito dopo, tutto è stato più straordinario di quanto avessi potuto pensare. Ho trovato in carcere quella Napoli da cui fuggivo. Ho trovato il Sud dell’Italia, ma anche il Sud del mondo: indiani, pachistani, russi, slavi, rumeni, moldavi, albanesi, africani, cinesi… Una compagnia internazionale che forse solo Peter Brook si può permettere. Ci sarà un motivo se in carcere c’è tutto questo Sud.

E così, grazie al teatro, il massimo della chiusura è diventato il massimo dell’apertura.
Lo scopo del mio lavoro era dimenticare le sbarre. A questo serve il teatro: a trovare un altro linguaggio rispetto al parlare quotidiano. Non ci si può limitare ad argomenti come le donne, lo sport, la famiglia, la malattia o la politica. Lo scopo del teatro è cambiare i connotati alla realtà.

Nelle sue opere lei dà molta importanza all’elemento visivo e musicale.
È questo il senso dei costumi appariscenti, realizzati per lo più da sarti cinesi. Infatti quando alcuni di loro vengono scarcerati, la nostra costumista va nel panico. Anche le scenografie rimandano all’acqua, alla natura, trasmettono un senso di pace estatica e di silenzio. Il tempo, poi, è dilatato dalle musiche di Andrea Salvadori, non a caso fresco di premio Ubu. Le musiche sono partitura drammaturgica. Il teatro diventa luogo d’incontro, al netto delle proprie autobiografie.

Che cosa intende per autobiografia?
Esaltare l’inesaltabile. Raccontare menzogne a sé stessi. Far diventare straordinario ciò che straordinario non è.

Davvero lei non ha un maestro di riferimento?
Mai avuto un maestro. Chi ce l’ha spesso passa la vita a cercare di ucciderlo.

Ma lei è un maestro per i suoi attori…
No. Semmai un riferimento.

È per questo che entra negli spettacoli come attore?
Una volta restavo dietro le quinte. Da qualche tempo invece entro anch’io in scena perché non passi l’idea che i nostri spettacoli siano storie di detenuti. Sarebbe limitante. Anzi offensivo.

Che messaggio esprime “Beatitudo”?
L’importanza del sogno che s’impone sulla realtà. Eliminare il superfluo che intasa la vita procurando morte e distruzione. Svelare spazi inesplorati. Questo è lo scopo che ci siamo dati in questi trent’anni. E vogliamo continuare così: imprevedibili, fantasiosi, camaleontici.

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