Al Teatro Bellini di Napoli lo spettacolo Premio Ubu 22 come miglior progetto sonoro
“Ashes”, ovvero ceneri: la cenere è consunzione, reliquia di ciò che è stato, rimasuglio decomposto e sminuzzato di una forma pregressa, trasformata dal tempo; le ceneri, declinate al plurale, evocano qualcosa che ha a che fare col culto memoriale, con la dissoluzione di qualcosa che si è conosciuto, toccato, visto, tante volte amato. E sono – le ceneri di “Ashes”, questo spettacolo di Muta Imago scritto e diretto da Riccardo Fazi – qualcosa che ci mette in relazione con un tempo indefinito, con quel limbo sospeso in cui giacciono come appallottolati in nebulosa congerie i nostri ricordi più intimi: sovrapposti, talvolta confusi, in alcuni casi sfumati in dissolvenza. Perché non si può non riconoscersi in uno o più frammenti di vita evocati, nel vocio familiare di una casa in cui abbiamo vissuto, nel rimprovero che abbiamo ricevuto da un genitore, nella felicità di un giorno di festa o nella drammaticità di un evento nefasto. Voci che appartengono a figure senza nome, voci che potrebbero appartenere a ciascuno di noi, oppure provenire dal nostro o dall’altrui passato.
Ma come avviene tutto ciò? Mescolando e dosando con sapienza il semplice e il complesso. La semplicità è data da un impianto scenico spartano: quattro leggii, quattro microfoni inastati, quattro attori in piedi abbigliati in modo usuale, un musicista in scena alla loro destra, nessuna azione fisica – se non la mimica e la gestualità sul posto in accompagno alla recitazione – per tutti i cinquantacinque minuti della rappresentazione, statica e frontale.
La complessità risiede invece nella combinazione sonora, vera e propria partitura subliminale che demanda l’intera azione al potere evocativo di quattro flussi coscienziali che si intersecano, voci e suoni, parole e versi d’animali, e a cui fa da contrappunto la musica eseguita dal vivo da Lorenzo Tomio, le cui sottolineature creeranno un passaggio sonoro così vivido da far percepire la musica stessa come un personaggio aggiuntivo.
Dal buio alla luce, appaiono Marco Cavalcoli, Monica Piseddu, Giovanni Onorato, Federica Dordei; li precedono i loro fiati: rantoli, respiri, gorgoglii; prim’ancora che ogni parola s’espanda, soffi vitali si diffondono nell’aria creando una sospensione iniziale, su cui s’innerva subito dopo il corredo musicale.
Di lì in poi, nel gioco delicato del tenue disegno luci di Maria Elena Fusacchia, è una serqua di parole che s’affastellano, un vociare concitato, in cui le interlocuzioni si mescolano, si sovrappongono, s’intrecciano. E raccontano. Non una storia, ma un quadro impressionistico, fatto di immagini quotidiane, di evocazioni relazionali, di affetti che sembrano vivere (o essere stati vissuti) in una dimensione altra, suggerendo ipotesi di esistenze pregresse e sliding doors ad esse successive (“Se si potesse rivivere daccapo la vita, come fosse una brutta copia”), quei what if che almeno una volta ognuno di noi s’è ripetuto tra sé e sé, a voce più o meno alta, ben sapendo trattarsi di periodi ipotetici dell’impossibilità.
Ma se non c’è una storia propriamente intesa, cos’è che di preciso “Ashes” ci racconta? Che cosa ci arriva veramente mentre siamo seduti in platea? Non so ben spiegarmelo mentre vi assisto, ma in previsione di doverci ragionare su, avverto da subito di esserne stato toccato, di sentire tra un frammento e l’altro quella vibrazione tutta interiore di chi percepisce che da quell’altra parte (su palco) non solo stanno parlando ‘a me’, ma stanno parlando ‘di me’; perché i quattro performer – ottimi interpreti, precisi esecutori – sono lì a costruire un mondo interiore trasversale, nel quale può specchiarsi qualunque sensibilità, riscontrandovi punti di congruenza e similitudini; sicché può affiorare un ricordo che commuove, una sensazione che ci ha infastidito, un oggetto legato a un momento o un suono legato a una persona, una parola che associamo a un istante felice, e un’altra che ci riporta a un affetto perduto.
Restiamo lì, in ascolto. Prendiamo nota di qualche parola, di qualche nome, di qualche data: 1880, 1931, 1954: sono riferimenti che ci dicono poco, ma che ci servono a farci leggere quel tempo della rappresentazione come uno spaccato diacronico e transgenerazionale, come se si trattasse di un’epopea familiare che parte da lontano, dalla posa del primo mattone di una casa avita per poi attraversare epoche e generazioni, di lascito in lascito, di memoria in memoria; e come se nel ciclico succedersi degli eventi si riproponesse un incessante déjà vu.
Spettacolo Premio Ubu 2022 come miglior progetto sonoro (nonché come miglior attore a Marco Cavalcoli) , “Ashes” è meccanismo scenico dall’apparenza informe e convulsa nel suo farsi babele di parole, ma in realtà precisamente complesso; finisce per arrivarci come un dono, piccolo ed etereo specchio dell’anima che, mentre ci ricorda – non senza malinconica velatura – dell’impermanenza del nostro essere al mondo, ci raggiunge come una carezza consolante. Cui non possiamo che rispondere con l’applauso.
Ashes
drammaturgia e regia Riccardo Fazi
con Marco Cavalcoli, Federica Dordei, Giovanni Onorato, Monica Piseddu
occhio esterno Claudia Sorace
luce e direzione tecnica Maria Elena Fusacchia
produzione esecutiva Index Muta Imago
produzione Valentina Bertolino
organizzazione Silvia Parlani
amministrazione Grazia Sgueglia
comunicazione Francesco Di Stefano
con il supporto di MiC
con il sostegno di Azienda Speciale Palaexpo – Mattatoio Progetto Prender-si cura
durata: 55’
applausi del pubblico: 2’ 30’’
Visto a Napoli, Teatro Piccolo Bellini, il 16 gennaio 2024