Assemblea Cavallerizza 14:45. A Torino la rigenerazione urbana parte dal basso, ispirata all’Europa

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Andrea Ciommiento|La X di Mauro Cuppone nel cortile della Cavallerizza (photo: maurocuppone.wordpress.com)
Andrea Ciommiento
Andrea Ciommiento

A meno di un anno dall’inizio dell’occupazione (il 23 maggio scorso), l’Assemblea Cavallerizza 14:45 ha creato nel cuore di Torino una rete di interazione fra artisti, lavoratori dello spettacolo, esperti, cittadini e perfino istituzioni, che ha portato ad un contesto di rigenerazione urbana innovativo, che intende continuare a muoversi verso lo sviluppo di forme di gestione partecipata. 

Per raccontarvi meglio cosa sta succedendo a pochi passi dalla Mole Antonelliana e fare il punto della situazione a sette mesi dalla ‘svolta’, abbiamo incontrato Andrea Ciommiento, regista e fra i curatori delle iniziative dell’Assemblea Cavallerizza 14:45.

Raccontaci come lavorate all’interno dell’Assemblea.
Le assemblee sono a libero accesso e il numero dei partecipanti varia sempre. Il gruppo interno è dinamico, ma di solito si aggira sulle 20-30 persone. Ci sono circa due assemblee a settimana, una la domenica dalle 18, in cui si fa un aggiornamento generale sulla situazione (dal dialogo con le istituzioni alle decisioni su come si decora e si tiene lo spazio) e una ogni mercoledì dalle 19, dedicata alle Politiche Culturali. 
Poi ci sono altri incontri settimanali rivolti o alla progettazione e alla programmazione artistica partecipata o alla ricerca di Visioni Urbane, cioè ai due focolari che stanno sotto il tetto di Assemblea Cavallerizza. Chi vuole può proporre progetti, e alcuni di noi “sposano” quelli che decidono di ospitare. L’idea non è quella di fissare una data in calendario, ma di creare un luogo di incontro progettuale, uno spazio in cui nascano reti tra persone e progetti che hanno qualcosa in comune. 
Infine ci sono le attività a libero accesso, come le serate, i laboratori…

Come prendete le decisioni?
Vengono prese per consenso, mai per voto. Vengono discusse e ogni volta, in base ai nodi da risolvere, i problemi vengono riportati all’assemblea settimanale, per capire quale linea d’azione preferire. 

Qual è il vostro rapporto con le istituzioni?

La nostra presenza in Cavallerizza è legittimata, e da fine maggio abbiamo cominciato ad essere invitati dalla giunta comunale per dialogare. Ugo Mattei, che è di fatto il giurista italiano per eccellenza sui beni comuni, da fine maggio ha creato un tavolo con una decina di avvocati che hanno portato avanti delle istanze, garantendo quindi anche la cura dell’aspetto giuridico. Un dialogo fruttuoso è stato quello con il sovrintendente Rinaldi, che ha portato alla possibilità di aprire i Giardini Reali tre volte alla settimana.

La Cavallerizza però è ancora in vendita…
Sì, è ancora in vendita. Ma il dialogo è aperto, e un passaggio importante è stato far capire che non la si doveva dare in mano ai grandi privati. Il Comune ci ha assicurato che la gestione sarà pubblica. Non possiamo pronunciarci sul futuro, ma intanto sappiamo che ora non c’è più il degrado inevitabile di un luogo abbandonato, e poi si sta alimentando una visione diversa di gestione culturale. 
Con l’occupazione stiamo tentando di comprendere come possa avvenire oggi la gestione partecipata di un contesto di proposta culturale, cioè senza un’istituzione che imponga un calendario. Non si tratta quindi solo di organizzare eventi, c’è anche una ricerca molto chiara a livello giuridico e urbanistico. 

E’ questa forse la maggiore novità dell’esperienza Cavallerizza.
La gestione partecipata è un po’ la base di tutto, altrimenti si riproporrebbe il modello di gestione a cui siamo abituati. Molti di noi continuano a nominare il fatto di essere degli “anti modelli”, ovvero dei modelli ribaltati, non ancora sperimentati.

Facci un esempio.
Il dialogo tra un luogo che nasce dal basso, partecipato, e un’istituzione ufficiale [abbiamo visto cosa sta accadendo al Valle Occupato di Roma, ndr]. Un modello simile in Italia non esiste, ad esempio manca l’idea di un festival ufficiale che dialoghi con centri nati dal basso, come invece accade a Bruxelles, a Madrid, a Vienna…
Un altro modello assolutamente da ribaltare è quello che le istituzioni siano qualcosa di chiuso e strutturato e i contesti di partecipazione dal basso siano esperienze indipendenti. Io penso che questo sia il segnale più forte che esce dall’esperienza di Torino.
In alcuni contesti capita che, a un certo punto, si perda il senso dell’occupazione, perché non si ribalta il modello che c’è già, perché diventa una militanza politica e basta. Qui c’è invece la possibilità di trovare molto equilibrio tra un dialogo fortemente politico e un dialogo artistico o culturale, cosa che trovi in alcuni centri esteri.

Di quali luoghi parli?
Tra gli esperimenti europei che nascono dall’occupazione – per andare contro la distruzione, la vendita e il degrado – ci sono, ad esempio, l’ex ospedale Bethanien di Berlino, un luogo di oltre 10.000 metri quadrati che di fatto ora è diventato una vera istituzione, e si chiama Quartiere dell’arte. O l’ex industria di tabaccheria, la Tabacalera, a Madrid, sempre di oltre 10.000 metri quadrati, che è diventata un’istituzione partecipata e si muove in più campi, dall’inclusione sociale alla creazione artistica. 
Un’altra esperienza è quella viennese del Wuk, un’ex stazione ferroviaria anche questa nata dal basso e divenuta istituzione. 
Tutto questo è molto affascinante: ciò che accade in Europa non ha a che fare solo con il teatro e lo spettacolo, ma è una ricchezza enorme, ha davvero tutto ciò che viene chiamato rigenerazione culturale, poiché si occupa di più aree, dalla teatrale alla giuridica, all’urbanistica. Questi centri hanno una gestione allargata che include diversi campi, divenendo a tutti gli effetti comunità partecipate.

Che rapporti avete con questi centri?
Sabato 13 dicembre c’è stato un incontro con alcuni curatori delle esperienze spagnole della Tabacalera di Madrid e di altre due realtà, una di Siviglia, l’altra di Barcellona, che hanno raccontato quello che sta accadendo lì e che si potrebbe configurare come ipotetico futuro della Cavallerizza. 
Quelle sono situazioni in cui sono intervenuti o il Comune o il Ministero, perché hanno sentito che c’era una comunità che si muoveva, c’era un’esigenza. 
Il desiderio è di continuare ad invitare anche i curatori delle altre esperienze europee. Gli esempi esteri rincuorano, mostrano che nel nostro agire c’è qualcosa di molto profondo che segue una linea.

Quanto di tutto ciò riguarda un discorso ideologico?
Il nostro agire è fuori da ogni ideologia. L’unica ideologia che accomuna tutti, e che viene scritta anche nel manifesto dei beni comuni di Mattei (“Beni Comuni. Un Manifesto”) è quella del bene comune, cioè dei singoli privati che decidono di dedicarsi al bene pubblico perché pensano che sia più interessante del proprio giardino e basta.

Qual è invece il vostro rapporto con gli altri teatri occupati in Italia?
Una delegazione dell’Assemblea Cavallerizza mesi fa è andata a un forum internazionale ad Amburgo, chiamato “The Art of Being Many”, dove c’è stato il ritrovo di oltre quattrocento fra artisti e partecipanti alle assemblee degli spazi occupati in Europa, e dove si è cercato di iniziare a comprendere come può essere l’arte in uno spazio partecipato. Si sono affrontati diversi nodi cruciali tipici delle assemblee degli spazi occupati, tra cui l’uso che si fa del tempo nelle assemblee, la risoluzione dei conflitti, la creazione di gruppi.
A distanza di qualche mese, a metà novembre, la Cavallerizza ha invitato al forum dedicato alle autoproduzioni laFondazione Teatro Valle Bene Comune, il Macao di Milano, il Mediterraneo Occupato di Palermo, il Teatro Rossi Aperto di Pisa, l’ex Asilo Filangeri di Napoli, il S.A.L.E Docks di Venezia e il Maam, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz – città meticcia (Roma). Si è cercato di comprendere quale può essere un alfabeto comune, attraverso il racconto delle diverse esperienze. 

Ci sono stati dialoghi fertili con istituzioni artistiche? 
Sì, ad esempio quello con la Fondazione Pistoletto, attraverso l’artista sudamericano Santiago Rejes Villa Veces che, dopo una prima residenza nel centro biellese, ha portato la sua opera “Traino” nel Maneggio Reale, contribuendo alla riapertura.
Inoltre, nella piazza della Cavallerizza c’è da un po’ di tempo una grande X gialla, che rimanda alla collaborazione con un’altra istituzione, quella romana del Maam: fatta per la prima volta a Roma dall’artistaMauro Cuppone, la X, su cui c’è scritto “Not Here” (che non ci sia qui il degrado), vuole identificare tutti gli spazi occupati, ed è stata pensata per esser vista nelle mappe di Google Earth.

La X di Mauro Cuppone nel cortile della Cavallerizza (photo: maurocuppone.wordpress.com)
La X di Mauro Cuppone nel cortile della Cavallerizza (photo: maurocuppone.wordpress.com)

Quali sono gli spazi della Cavallerizza attualmente utilizzati?
I luoghi di cura sono la Manica corta, la Manica lunga (prima abbandonata), il maneggio reale, i due foyer e poi il primo piano, dove si fanno le assemblee interne di programmazione o le pause pranzo con gli artisti. 
Siamo in un contesto molto vicino alla Cartoucherie di Ariane Mnouchkine, che è uno degli esempi più forti, ma che al momento in Italia non viene raccolto: ossia l’unione di 6/7 realtà teatrali che sono unite a Parigi da un contesto comunitario; c’è la Mnouchkine che fa i suoi spettacoli, Carolyn Carlson che fa i suoi di danza, e così via. Anche lì ci sono maneggi con i cavalli. È un contesto con una finalità molto chiara, intende il teatro anche come pretesto per costruire una nuove idea di Welfare.

Cosa mi dici del progetto “Visioni Urbane”? 

Il progetto racchiude tutto il lavoro sulla ricerca, la cura e la tutela della Cavallerizza. Oltre all’incontro coi centri europei di cui ti ho parlato, l’Università di Torino organizza workshop chiamati “P di Piazza”, che si tengono una volta alla settimana; sono aperti a tutti ma in modo particolare a studenti e insegnanti di architettura; si cerca di comprendere come utilizzare tutti gli spazi della Cavallerizza e il nuovo auditorium dell’università, appena inaugurato. 
L’auditorium sembra un tutt’uno, questa è la cosa bella: visivamente non si capisce se è istituzione o se è un contesto dal basso, se la X di “Not Here” sia da collegare all’Accademia di Belle Arti o a noi… questo è il cortocircuito più positivo.

Qual è la risposta della cittadinanza all’occupazione?
È curioso come in pochi mesi sia successo qualcosa che in altre esperienze manca. Non vogliamo essere un’esperienza costola, nascosta, ma un’istituzione partecipata che possa trasformare i luoghi istituzionali in casa. Perché le persone sono un po’ stufe di essere escluse dai luoghi pubblici. 
Nell’orto urbano di Bethanien, l’ex ospedale di Berlino, c’è scritto “Qui si possono coltivare i sogni”. La cosa interessante è provare a mostrare come si può essere un’istituzione casa, o fondamentalmente un ambiente di relazioni oltreché un ambiente di organizzazioni. E questa è un po’ la differenza. Cioè non mostrare solo l’immagine di un’istituzione che programma o produce ma che entra nei processi di sviluppo. Essere autori dei processi di sviluppo fa sentire la gente inclusa nei luoghi, non esclusa. 
È stata fatta una stima degli ultimi mesi: ci sono stati più di 150 eventi, tutti ad accesso libero, con un’oscillazione tra i cinquanta e i trecento partecipanti; insomma, la sera c’è veramente gente. Questo significa che la Cavallerizza risponde a un’esigenza.

Quanto vi ha danneggiati l’incendio doloso di fine agosto e che conseguenze ha avuto?

Subito dopo l’incendio il Circolo dei Beni Demaniali ha dato pieno appoggio all’esperienza dell’Assemblea, anche perché è intergenerazionale, trovi anche persone di 60 e 70 anni. Alcuni hanno messo in luce l’aspetto speculativo, poiché un luogo così danneggiato può essere ristrutturato senza troppi vincoli, e quindi l’incendio avrebbe potuto accelerare la vendita. Quello che a noi interessa però è che da parte dei cittadini c’è stata una reazione incredibile, centinaia e centinaia di persone hanno preso parte a una lunga fiaccolata, dando pieno appoggio a quest’esperienza di occupazione. Come se dopo quel triste episodio ci si fosse davvero resi conto che la Cavallerizza è un bene da proteggere, da tutelare, perché è in pieno centro a Torino e perché può riguardare tutti, se c’è qualcuno che se ne prende cura.

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