Autoritratto. Davide Enia in scena al Piccolo Teatro di Milano fino al 17 aprile
Standing ovation: con questa reazione è stata accolta la nuova produzione di Davide Enia sin dal debutto al Festival dei Due Mondi di Spoleto nell’estate del 2024 e in varie sue repliche.
Nella platea dell’auditorium di Trevignano (TV) si sente una spinta ad alzarsi mentre si trattiene quella di salire sul palco ad abbracciare Davidù – come ci ha insegnato a chiamarlo sin dagli esordi – e, insieme a lui, i personaggi a lui più prossimi – familiari, amici, conoscenti – a cui ha prestato volto, corpo, voce affinché i loro vissuti fossero consegnati alla Storia come qualcosa che merita attenzione e cura.
«I Siciliani bisognerebbe ammazzarli tutti». Lo schiaffo di questa affermazione colpisce in faccia uno dei fratelli di Davide mentre si trova in villeggiatura nell’Alpe di Siusi il 19 luglio 1992. «Di Siciliani ne hanno appena ammazzati due», riesce a dire il ragazzo prima di scoppiare in lacrime nel giorno dell’attentato a Borsellino – l’uomo che sapeva, come tutti, di essere «un morto che cammina», dopo l’eliminazione di Falcone. E sono quelle lacrime mai abbastanza considerate, quegli strappi cuciti a forza o rimasti aperti come calli scorticati, che Enia riesce a portare in scena, far sfogare, riscattare.
C’era bisogno di uno spettacolo che ci parlasse non tanto di Cosa Nostra, delle sue efferatezze o dei suoi martiri già conclamati, ma di altre vittime, silenziose, invisibili: uno spettacolo che ci facesse sentire sulla pelle che cosa abbia significato e significhi a tutt’oggi crescere in un’atmosfera di paura, violenza omicida, logiche distorte, di criminalità organizzata e a volte istituzionalizzata, e come un orizzonte che avanza chiudendosi possa condizionare la formazione dell’identità e delle aspettative di chi si affaccia alla vita.
L’apertura dello spettacolo è affidata ad una sostanza sonora rarefatta, eppure densa, che si spande come lava a riprodurre l’atmosfera sospesa e straziante della Sicilia: cavernoso, nasale, arcaico è il primo dei vari canti che Davide Enia e il polistrumentista Giulio Barocchieri intoneranno, rinviando ai fratelli Mancuso e alle litanie ritrovate da Giovanna Marini.
Dalla penombra alla luce, l’attore si staglia al centro e comincia: «Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni tornando a casa da scuola». Inizia da qui la ricostruzione della memoria di un piccirillo della classe 1974, che dribbla ciò che non capisce occupandosi poi dell’album delle figurine Panini. Sono gli anni Ottanta, il tempo delle ammazzatine. Essere bambini a Palermo significa conoscere il rumore degli spari, le sgommate degli esecutori, il manifesto rosso della morte stesa sull’asfalto. Significa vedere i Carabinieri entrare in classe, prelevare uno tra i tanti «per la sua sicurezza» e osservare un mondo adulto inerte. «E’ colpa vostra se mi fate crescere in una città dove ti ammazzano le persone sotto i balconi di casa […] e voi mi costringete a crescere qui», griderà uno dei migliori amici di Davidù in faccia ai propri genitori.
L’adolescenza e la prima giovinezza, i corteggiamenti e i primi baci, le prime conquiste di autonomia si svolgeranno come i salti del gioco a campana o u tririticchete per le strade di una città dove occorrono “istruzioni per la sopravvivenza”, come recita il sottotitolo dello spettacolo che è anche un libro edito da Sellerio: imparare qual è il posto dello sguardo, conoscere le strade da evitare, sapere bene che ci si sposa non soltanto con una persona ma soprattutto con la sua famiglia, disinnescare all’istante l’interesse per chi ha pochi gradi di separazione dalla mafia, proiettare la migliore versione del proprio futuro nel continente. E nell’avviarsi agli anni Novanta è sempre più frequente confondersi con altri giovani: quelli appena maggiorenni, in divisa militare e mitra imbracciato; oppure quelli senza segni distintivi ma con pistole alla mano che vogliono essere usate «per non fare la ruggine».
Il clima di sempre maggiore imbarbarimento che culminerà con lo scioglimento nell’acido di un altro bambino, Giuseppe Di Matteo, è ricondotto alla mutazione antropologica della mafia, impressa dai corleonesi. La ricostruzione del processo, affidata alla prospettiva di tre esponenti della D.I.A. con cui Enia si è confrontato, rappresenta una pausa troppo prolungata, secca e didascalica.
La narrazione invece vibra quando, accompagnata da quel gesticolare affabulatorio che contraddistingue l’autore, si fa corposa di ricordi ed emozioni, di ingenuità in cui tutti siamo incorsi e consapevolezze precoci da cui siamo stati preservati, di slanci vitali in cui riconoscersi e di inibizioni riservate a chi cresce sotto il cappio del pericolo quotidiano. L’autobiografismo si diluisce immediatamente: chi dice io trattiene a sé e annoda i fili di tante storie simili alla propria, disegnando un ritratto plurale.
Palermo è un fil di lama, una nevrosi, una caleidoscopio schizoide, di cui si resta prigionieri reiterando una sapienza remissiva: ’a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice. In questo contesto, quale reazione chimica potesse provocare la figura di Padre Puglisi, docente di religione al liceo frequentato dai fratelli Enia, con quella mitezza «in grado di disarticolare il linguaggio di violenza e ferocia di Cosa Nostra», è dato accertato non solo dal suo omicidio portato a termine nel 1993, ma anche dalle scelte di vita e di ribellione di tanti suoi allievi.
Come quella di Davide, che oggi come allora, anche attraverso questo spettacolo, ha raccolto l’invito di Don Puglisi a «nominare le cose» ed osservare il male per riconoscerlo in sé.
Mille chili di tritolo fecero saltare in aria non soltanto l’autostrada a Capaci e altre quattro esistenze oltre a quella di Giovanni Falcone, ma anche l’identità comunitaria palermitana, che da lì cominciò a sgretolarsi. E quell’evento, per alcuni catartico, Enia ce lo racconta ricorrendo al cunto siciliano: il discorso si frantuma in sillabe prive di senso, si fa pura scansione ritmica di un tempo concitato ed esterrefatto. Come nella tradizione, questa tecnica veniva impiegata per dare enfasi alle battaglie dei paladini medievali, allo stesso modo la scelta drammaturgica dell’autore oggi ci interroga su com’è possibile mettere in rilievo, attraverso la cronaca più recente, una moderna epica collettiva, e come sia possibile raccontare l’impatto individuale e sociale di un corpo a corpo con avversari d’altra fattura, a tratti disincarnati.
“Autoritratto” è di fatto proprio il racconto epico di una generazione che ha cercato di preservare la propria dignità e aspirazione alla vita, non soltanto con gli strumenti della resilienza ma anche assumendosi la responsabilità di riconoscere che il male dentro ciascuno può assumere la forma dell’assuefazione ad un’atmosfera culturale considerata inscalfibile.
Il 19 luglio 1992 Davide sta attendendo i risultati dell’esame di maturità. Vive di fronte al condominio di Paolo Borsellino ed è cresciuto giocando a calcio con suo figlio. «Vado in cucina, apro il frigorifero, stappo una birra Forst e alla radio sento che c’è appena stato in via D’Amelio un attentato […] la birra mi cade dalle mani e si frantuma in mille schegge, e io rimango lì, immobile, a contemplare il ritratto esatto della nostra giovinezza».
Ma è proprio a partire da questo momento, dalla percezione che «la bomba sia stata una liberazione» e abbia fatto esplodere un malessere compresso dall’abitudine ad adattarsi a un clima e a regole assunti come connaturati ma in realtà imposti, che lo spettacolo si avvia verso la conclusione, lasciandoci i fotogrammi più luminosi di un altro volto della Sicilia da non dimenticare: quello del «movimento dei lenzuoli», delle «manifestazioni oceaniche», delle occupazioni delle scuole da parte di studenti che in autogestione intendevano fare ciò che per anni i propri genitori avevano evitato. Ossia parlare, confrontarsi, nominare le cose e non considerare normale ed accettabile un ordine malsano.
Mille sono le Palermo, in Italia e nel mondo, in cui ancora oggi bambini e ragazzi crescono nella sceneggiatura di un incubo confondendola con l’ordinarietà.
In scena al Piccolo Teatro di Milano fino al 17 aprile.
Autoritratto
testo di e con Davide Enia
scene e luci di Paolo Casati
musiche originali di Giulio Barocchieri
suono di Francesco Vitaliti
una co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi
con il patrocinio della Fondazione Giovanni Falcone
durata: 1h 30’
Visto a Trevignano (TV), Auditorium, il 22 marzo 2025