Come in altre occasioni, il lavoro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini attorno a una vena non si esaurisce con una singola estrazione. Nel caso dell’attuale progetto su “Ginger e Fred” di Federico Fellini, sono tre le produzioni: dopo il debutto estivo a Santarcangelo il prezioso “Sovrimpressioni” arriva anche a Roma; la seconda vede la luce sul palco dell’Argentina nell’ambito di Romaeuropa Festival e ha il titolo di “Avremo ancora l’occasione di ballare insieme”; la terza è il documentario con Jacopo Quadri “Siamo qui per provare”.
I due pezzi teatrali sembrano essere il risultato di un unico foglio di lavoro, e il rapporto in cui stanno l’uno con l’altra ricorda il “gioco delle pupazze”. Quando le nonne ritagliavano per noi le “pupazze” di carta, eliminando per dar loro forma gli spigoli superflui del foglio, essi, se ricollocati al loro posto sul tavolo, restituivano in negativo la silhouette delle bamboline. Così i materiali di “Sovrimpressioni”, più diretti, ci ricordano il positivo delle figure, mentre quelli di “Avremo ancora l’occasione” appaiono disseminati in uno spazio (qualunque significato si dia al termine) più ampio. E più impegnativo, oltre alla messa a fuoco della figura che contornano, risulta opera in sé, sia dal punto di vista della produzione che della durata che dell’ambizione.
Sei le persone in scena, suddivisibili in tre coppie di attori/personaggi, «una coppia di trentenni [Francesco Alberici, Martina Badiluzzi], una di quarantacinquenni [Monica Demuru, Emanuele Valenti], una di sessantenni [gli stessi Deflorian e Tagliarini], anche se la coppia è una sola, nello scorrere degli anni», recitano le note di accompagnamento.
Il doppio sdoppiamento di Mastroianni e Masina nel film (Pippo e Amelia sono sosia di Fred Astaire e Ginger Rogers) si duplica ulteriormente, arrivando a mettere in gioco ben dodici coppie, attuali o passate, presenti o alluse. Entreranno tutti in scena, un po’ per volta, in una o in un’altra forma.
Ma, per iniziare, davanti ai nostri occhi si para il panorama post-apocalittico della fine del teatro, in cui il palcoscenico ribaltato, con il sipario appeso sul fondo e noi, la platea, al posto del muro, è un prezioso reperto storico.
Così era il teatro prima della “grande catastrofe”, dice Demuru nella parte di una guida museale intaccata dai tic della reiterazione, aggrappata ai suoi strascichi di cadenza come all’unico brandello scampato all’alienazione di un mestiere para-attoriale. La grande catastrofe si chiarisce poi essere l’evento epocale della scomparsa del teatro – di parola, si specifica, per aggiustare significativamente il tiro.
A questo inizio, segnato da un asciutto, provocatorio realismo quasi distopico, subentra una seconda lunga fase in cui quell’ironia un po’ sfrontata ma già amichevole cede il passo a un tono più molle, quello del ricordo, strumentale a una ricostruzione postuma e affettuosa di un percorso: gli attori che vanno in sala prova «come in miniera»; gli attori portatori e vittime di una sensibilità mobilissima e stremata; gli attori umiliati nei ristoranti a servire pietanze ad altri attori; gli attori in platea, che annotano come altri attori salutano il pubblico agli applausi; gli attori dopo anni di sacrifici, che, finalmente, ce l’hanno fatta.
Lo spazio teatrale stesso cessa presto di essere ricostruzione di un ambiente e si carica di una energia evocativa, diviene anzi esso stesso luogo deputato, privilegiato, per l’evocazione di fantasmi, di ombre, ricordi, racconti morali.
Non mancano momenti in cui la parola cede la bacchetta a un efficace intervento in chiave visionaria, come la lunga scena in cui Valenti lotta contro il mostro del sipario, virato dal rosso al verde, né sequenze scenicamente liriche, in cui il linguaggio è spostato su un piano di spietata poesia delle cose, come quella in cui sentiamo gli inviti all’ultimo ballo di una consunta ballerina da balera, disfatta dalla nottata ma incapace di cedere al sorgere del sole, alla fine della festa.
Tutto ciò avviene sotto le luci di Gianni Staropoli e Giulia Pastore che scaldano ai lati del palco due ambienti/camerini, accoglienti tane dei ricordi, con stand per costumi e sedie e piccolo tavolo da trucco; più asciutte delineano il centro, dove l’azione ha bisogno di maggiore nitidezza; addirittura immaginifiche si riversano sulle onde del sipario, soprattutto quando contro le sue pance si svolge la lotta che si diceva, l’attore contro quell’insidioso diaframma che, ricordano, sezionava la compagnia di Eduardo durante gli applausi, tenendo il capocomico fuori per la chiamata in ribalta, gli altri dentro.
La dimensione in cui il materiale è reso, un materiale nato dalla cucitura di frammenti che si indovinano partoriti anch’essi per evocazione, per suggestione, non interessati a legami consequenziali o sviluppo nel senso classico, è una dimensione insieme archeologica (per la finzione dell’apocalisse teatrale ma anche per il modo di porre quel materiale come oggettivato, traccia palpabile di un passato sfiorito), pseudo-autobiografica (oscillante tra l’auto-fiction, la realtà, la citazione di “Ginger e Fred” il gioco delle duplicazioni) e affettiva.
Dal punto di vista del contenuto, si tratta principalmente della costruzione di una mitologia personale, anzi “di classe”, si direbbe – il teatrante può ironicamente mimare in scena quel cameriere che l’indigenza ha costretto tante volte a impersonare nella vita.
Dal punto di vista della costruzione, l’andamento “a stella”, instancabilmente stressato da moti centrifughi e centripeti che già “Sovrimpressioni” dichiarava, è qui spinto al grado estremo, con una predilezione per la fuga. Seppure in una parcellizzazione per momenti non sempre giustificabili da un’ottica unitaria, la tensione che i due autori riescono a far vibrare sul palco è tale che la scena è sempre accesa, e lo spettatore sottoposto anche lui a inesausta trazione, in un clima calmo ma internamente febbricitante.
E però in “Avremo ancora l’occasione” tale tensione della costruzione, e di conseguenza della scena, non è sufficiente, come invece poteva essere nel serrato pas de deux di “Sovrimpressioni”: a parte alcune efficaci uscite (teatro come ricerca della realtà fuori dalla realtà; il tema del buio in scena, a partire dal blackout dei protagonisti felliniani, fino all’oscurità misterica e totipotente della scatola teatrale) troppe volte la scrittura, nel senso specificamente testuale, appare troppo capricciosa per garantirsi il carattere di necessità; il febbrile discostarsi dal centro suona come un vezzo, e il rifiuto dello sviluppo come un’accorta autocensura di conseguenze forse troppo povere per essere mostrate, coperte dunque, quando affiorano, con paradossi, contraddizioni, cliché (la predestinazione del fanciullo alla scena, l’attore intelligente e/o stupido, la giovane attrice che sogna un camerino grandissimo, le fisime degli attori).
I personaggi si ripiegano su sé stessi e sul loro mondo con una mollezza e un’autoindulgenza che turba per estenuazione, ma non smuove, almeno non come avevano saputo fare altre chirurgiche esplorazioni di Deflorian/Tagliarini.
E qualcuno, fra i teatranti in platea, potrebbe avvertire quel tipico, sinistro spostamento d’aria che produce il passaggio dello spettro dell’autocelebrazione.
In conclusione, si ha l’impressione, nell’ipotesi migliore, che l’urgenza della ricerca nelle cose abbia ceduto il passo a quella, altrettanto nobile, del puro significante, della già ricordata dinamica in pianissimo penetrante, tesa, che dei materiali testuali si serve solo come ingredienti per ottenere un risultato tutto sensoriale, edonistico (e dunque il prossimo defunto “teatro di parola” ne risulterebbe dimezzato nella portata già a partire dal suo canto funebre), come se tutte le parole dette stiano diventando poco più che un pretesto per intonare nuovamente il magico suono, per tradurre scenicamente niente più che uno stato interiore – nuovamente – autoindulgente, della cui sincerità, prima ancora che dell’opportunità, potrebbe essere lecito dubitare.
È una scelta legittima, ma che può portare, anche per uno dei più notevoli fenomeni teatrali italiani degli ultimi anni, al rischio della risacca, della maniera.
Avremo ancora l’occasione di ballare insieme
un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Ginger e Fred di Federico Fellini
interpretazione e co-creazione: Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini, Emanuele Valenti
aiuto regia e collaborazione alla drammaturgia: Andrea Pizzalis
consulenza artistica: Attilio Scarpellini
luce: Gianni Staropoli e Giulia Pastore
scene: Paola Villani
suono: Emanuele Pontecorvo
costumi: Metella Raboni
direzione tecnica: Giulia Pastore
foto e video di scena: Andrea Pizzalis
cura e promozione: Giulia Galzigni / Parallèle
amministrazione: Grazia Sgueglia
Foto: Andrea Pizzalis
un ringraziamento a Lorenzo Grilli per il training tip tap e a ziamame per la collaborazione ai costumi
una produzione: Associazione culturale A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio Prato
coproduzione: Comédie de Genève, Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Théâtre populaire romand – Centre neuchâtelois des arts vivants, Théâtre Garonne – scène européenne et Centre Dramatique National Besançon Franche-Comté
con il sostegno di Interreg France-Suisse 2014-2020, programma europeo di cooperazione transfrontaliera nel quadro del progetto MP#3, e del Romaeuropa festival
residenze: Ostudio Roma, Théâtre Garonne – scène européenne
Durata: 1h 40′
Applausi del pubblico: 3′
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 12 ottobre 2021