B.Motion Teatro 23: Bassano del Grappa intercetta il presente, perdendo di vista il futuro

Sergi Casero Nieto ne "El pacto del Olvido" (ph: Alessandro Sala)
Sergi Casero Nieto ne "El pacto del Olvido" (ph: Alessandro Sala)

Tra le novità di questa edizione il Focus sulla drammaturgia tedesca

OperaEstate Festival di Bassano del Grappa ogni anno si conclude attraversando B.Motion, il format dedicato ai linguaggi del contemporaneo e agli artisti emergenti, esplorati nei tre ambiti della danza, del teatro e della musica.
Alla sua 43^ edizione, la sezione teatrale si è svolta nella settimana forse più torrida di tutta l’estate; suona perciò ironico scrivere che l’edizione di quest’anno è risultata decisamente tiepida.
Sembrano lontani i tempi in cui questa porzione del festival era la più ghiotta, offrendo una vetrina esclusiva per individuare talenti non ancora integrati nel sistema di circuitazione e che, proprio grazie ai palchi di Bassano, si presentavano spesso per la prima volta agli occhi e alla valutazione degli operatori culturali; tempi in cui la sperimentazione, l’imprevedibile, la provocazione erano cifre costanti, non sempre scevre da autoreferenzialismi ma in ogni caso espressione di tendenze centrifughe rispetto alle convenzioni.
L’interruzione della collaborazione col Premio Scenario ha cambiato la fisionomia della sezione e pure alcune alterne vicende nella direzione artistica e nelle partnership. Senza andare troppo lontano, basterebbe confrontare quella appena conclusa con l’edizione dell’anno scorso per misurare un calo di propulsività.

Abbiamo parzialmente seguito le cinque serate, in cui si sono svolti otto spettacoli di teatro, altri due afferenti piuttosto alla danza (l’incantevole “La vaga grazia” di Eva Geatti) e al teatrodanza (“Under the influence” di Gianmaria Borzillo, ancora acerbo a nostro avviso), e tre letture sceniche prodotte dal festival.
Non siamo fanatici delle prime nazionali, ma diversi erano gli spettacoli già recensiti nella nostra testata: da “Enrico IV” della Piccola Compagnia della Magnolia, “Between me and P.” di Filippo Ceredi, “Una riga nera al piano di sopra” di Matilde Vigna, che ha sostituito il mancato debutto di “Una piccola opera lirica” di Leonardo Manzan.
Anche l’attesa selezione dal Premio In-Box, non definita al momento in cui il programma è andato in stampa, è stata rimpiazzata con l’adattamento teatrale del podcast “Io ero il milanese” di Mario Pesce. Non era invece ancora circuitato in Italia “The chance to find yourself”, risultato dell’incontro tra l’altoatesino Benno Steinegger e del congolese Jovial Mbenga.
Un vero e proprio debutto si è avuto l’ultima sera, per “El pacto del Olvido”, firmato ed interpretato dallo spagnolo Sergi Casero, su cui varrà la pena tornare.

Molte pièce si sono dimostrate esteticamente impeccabili, ma la maggior parte di esse ci ha lasciati con la sensazione che qualcosa mancasse: mancava complessivamente un mordente capace di scalfire un segno deciso nelle coscienze degli spettatori. Ne è un esempio emblematico l’“Enrico IV” della Piccola Compagnia della Magnolia, un titolo e una messinscena che non scomoderebbe il pubblico di un teatro comunale. Ma in proporzioni molto differenti ciò vale pure per “Odradek” dei Menoventi: un’opera sorprendente per gli effetti speciali, frutto di un’inventiva scenotecnica capace di mescolare raffinatissime abilità artigianali con più recenti innovazioni, in una cornice nitidissima per geometrie e colori; tuttavia la trama non si rivela altrettanto spiazzante. Essa descrive nei suoi risvolti parossistici uno scenario distopico a cui ci stiamo già assuefacendo, e pertanto non troppo inedito: un futuro soggiogato da algoritmi ed oggetti dotati di intelligenza propria, risucchiato nella spirale accumulatrice, spersonalizzante e omologante del capitalismo, abitato da solitudini frammentate. L’ironia che contraddistingue i Menoventi non manca, ma prevale la rassegnazione: l’unico spiraglio di rivolta prospettato fallisce e la conclusione suona come un atto di resa.
Nell’insieme, diciamo che nella temperie in cui stiamo vivendo su più livelli – ambientale, economico, politico, internazionale – ci si sarebbe aspettati qualcosa di più rispetto a qualche velleità di denuncia o a descrizioni di uno stato di fatto che stentano a fare scalpore: sono mancate sollecitazioni meno scontate o intuizioni di utopie possibili.

La fotografia scattata a Bassano riproduce una scena nazionale che in alcuni casi prosegue tangenzialmente rispetto alle molte urgenze del presente, in altri le descrive ma si arresta ad esse senza elaborare una possibilità di superamento della crisi in corso. Un’altra triste evidenza di un sentimento diffuso a livello nazionale di impotenza, disillusione e disaffezione dalle questioni pubbliche.

Licia Lanera con “LOVe ME” è riuscita più di altri a spostare gli spettatori dalla propria comfort zone, facendo loro misurare la distanza interposta tra un astratto “noi” e gli stranieri. Per farlo si è affidata alla scrittura del superbo Antonio Tarantino e ha giustapposto due testi, l’inedito “La scena” e “Medea”, che danno rispettivamente voce a un cittadino ordinario e a una straniera in carcere: nel primo i pregiudizi sono espressi in modo parodico, nel secondo la frustrazione della condizione di reietta sembra motivare aggressività e rabbia distruttiva. Ma è proprio questo secondo pezzo ad inficiare la resa complessiva, un po’ compromessa dalla forte soluzione di continuità tra l’uno e l’altro atto, che presentano una differenza sensibile nella scrittura, meno coerente, e nella dizione, meno chiara.
La presenza inerte del nero Suleiman Osuman, definito “il corpo del reato”, non aggiunge nulla alla resa, e la scena conclusiva, affidata ad un abbraccio, scioglie in maniera un po’ ingenua e non all’altezza delle premesse la corrosività che la precede.

Rispetto al 2022, due sono state le novità strutturali. La prima è il “Focus sulla drammaturgia tedesca”, curato da Monica Marotta: il progetto ha commissionato la traduzione di due testi per la scena (ancora inediti in Italia) spinosi e controversi, composti in lingua tedesca dalla scrittrice russa Sasha Marianna Salzman e dalla georgiana Nino Haratishwili, e la produzione di altrettante letture sceniche, oltre ad una terza lettura di estratti di un romanzo invece già edito; le interpreti selezionate sono state le talentuose Leda Kreider, Matilde Vigna, Federica Rosellini, abili nel distaccarsi dal mero reading e calarsi nella parte.
In particolare, la Rosellini, affiancata da Michele Eburnea – entrambi distintisi per un’intensità vibrante – ha reso più densa l’atmosfera con suoni prodotti, campionati e sintetizzati dal vivo, oltre che con movimenti nello spazio appena accennati ma sufficientemente rappresentativi.

L’altra novità è la presenza in cartellone di spettacoli con versioni accessibili curate da Al.Di.Qua.Artists, a cui abbiamo dedicato un approfondimento: “Between me and P.” di Filippo Michelangelo Ceredi e “La vaga grazia” di Eva Geatti hanno accolto anche spettatori non vedenti, non udenti e neurodivergenti.
Se quest’ultima è un’operazione che va anche verso l’ampliamento di pubblico, è un peccato dover registrare un calo di presenze significativo, come nel caso de “El pacto del Olvido”, forse lo spettacolo più meritevole di attenzione e collocato a conclusione di B.Motion Teatro, andato in scena in un Teatro Remondini per tre quarti vuoto.
Senz’altro l’anticiclone Nerone non ha favorito le presenze ma occorre anche registrare qualche défaillance nell’organizzazione: ad esempio, il progetto collaterale “Abbecedario”, finalizzato al public engagement ed articolato in incontri con registi ed attori, non sembra un asset su cui la direzione intenda puntare, risultando poco promosso o male comunicato, e di fatto poco frequentato.

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