La passione di Barabba. Teresa Ludovico torna ad Antonio Tarantino

Barabba di Teatro Kismet
Barabba di Teatro Kismet

Michele Schiano di Cola è protagonista assoluto della prima messinscena di un testo meno noto del drammaturgo, prodotta da Teatri di Bari

Il drammaturgo Antonio Tarantino, torinese d’adozione ma bolzanese di origine, scomparso quasi tre anni fa, rappresenta un caso veramente unico in Italia. Arrivato tardi a scrivere per il teatro, ci ha donato sempre testi dal sapore urticante, fortemente intrisi di un afflato empatico verso gli ultimi, i reietti, in un mondo governato da un potere che fa spudoratamente i suoi soli interessi.

Quella di Tarantino è una lingua feroce, ebbra, bulimica che, come un vortice insaziabile, mastica un’ampia gamma di registri, tra il sacro e il profano. Una lingua che non trova pace, sosta, respiro, continuamente alle prese con una lotta intestina tra aulico e prosaico. Una lingua contaminata che nel teatro ricerca evidenza e piena espressione di sé.
Eppure solo in anni abbastanza recenti il teatro italiano è parso accorgersi della potenza delle sue suggestioni, ardue tra l’altro da rappresentare adeguatamente.

La regista Teresa Ludovico, già abituata ai suoi testi avendo messo in scena negli anni passati “La casa di Ramallah”, “Namur”, “Cara Medea” e “Piccola Antigone”, ha proposto ora un testo inedito del 2010, “Barabba”, tra le opere di Tarantino certamente una delle meno note.
Il monologo, dattiloscritto nel 2010 ma pubblicato solo post mortem dall’editore Cue Press, arriva quindi alla ribalta grazie all’allestimento della regista del Teatro Kismet OperA di Bari, che negli ultimi anni si è appunto dedicata con passione a un profondo scavare nei testi del drammaturgo.

Abbiamo assistito a “Barabba” nella sede di Teatri di Vita a Bologna, compagnia che proprio in questi giorni festeggia i 30 anni di attività.

L’operazione della Ludovico si propone di esaltare la parola, esplorandone la poliedricità musicale, ad esempio spingendo ulteriormente nell’uso degli accenti regionali, mentre il lavoro sulla ritmica, protesa verso il rap e la poesia, fagocita con insaziabilità l’incalzare del testo.

Ecco dunque che la scelta d’esibire la carnale nudità dell’attore, in tutta la sua traboccante corpulenza, ci appare quale metafora della voracità linguistica di Tarantino, che in questo specifico monologo dà voce alla figura controversa di Barabba, il brigante zelota, a tutti conosciuto dalla lettura dei Vangeli.

In scena, chiuso in una prigione metallica cosparsa da botole che si erge come una torre, Barabba si presenta, nella sua bestialità, nell’ultima notte in carcere prima di essere crocifisso.
Michele Schiano di Cola si cala nel personaggio in un bagno di sudore: occhi spiritati, voce rauca, movenze grette e scimmiesche. Il suo è un Barabba piacione, astuto, subdolo, arrogante, volgare.
Barabba, o Gesù Barabba come il destino ha voluto che si chiamasse, è un piccolo malvivente che perpetua i suoi modesti affari in una Palestina dai contorni contemporanei, incarcerato per essersi trovato per caso nel bel mezzo di una rivolta in cui muore un soldato degli occupanti romani, sempre pronti, come tutti i padroni, a fare i propri comodi e a trovare i colpevoli tra la povera gente. Aggrappato alle sbarre e costretto in uno spazio angusto, Barabba elemosina pietà e compassione, denunciando le terribili condizioni dei carcerati, che una mancata riforma prometteva di migliorare.

In condizione d’isolamento e di deprivazione materiale, questo brigante mitico-contemporaneo dà sfogo a un delirio d’onnipotenza: un impasto d’imprecazioni e di riflessioni filosofiche/spirituali che riversa sul pubblico con marcata cadenza.
Niente affatto prono, si presenta – spavaldamente – come vittima predestinata di un potere di cui si fa beffe, esprimendo (tra pianto e riso ma anche rabbia) tutto il disagio per la sua situazione, in un fiume in piena di parole sbraitate e strepitate, rese attraverso tutte le possibili inclinazioni dialettali, e da cui ben visibili emergono i servi e i padroni. Spaziando tra narrazione evangelica, riferimenti alla malavita e all’Italia di oggi, Barabba s’interroga sul concetto di verità e sul senso dell’esistenza, evidenziando i dilemmi e le contraddizioni insite in tutti noi, a partire dalle nostre radici più profonde.
È qui che si confronta con un altro poveraccio, che vicino a lui sta per essere messo in croce, di cui fatica a comprenderne le ragioni.

Ogni parola, ogni sentimento, sono espressi dall’attore napoletano con il giusto e cangiante peso, restituendo tutta l’ingenua ed incandescente sostanza di un personaggio che, uscito dal limbo dei nostri ricordi, diventa carne viva e palpitante anche attraverso la regia sapientemente discreta della Ludovico.

È un mondo senza pietà alcuna, quello presentatoci da Tarantino, popolato da mostri, in cui Barabba e con lui Gesù sono le due facce di un’umanità calpestata e vilipesa, che ha bisogno di un riscatto che forse solo il teatro può concedere loro.
E infatti, in questo buio assoluto può anche accendersi una piccola luce.

L’impatto sul pubblico è palpabile; c’è qualcosa di perturbante in questa figura, al contempo ripugnante ed affascinate, vittima e carnefice. Le energie degli spettatori vengono assorbite dall’impasto del testo, in un mix di emozioni contrastanti: da un lato si lascia avvinghiare dal fascino della delinquenza, con la sua eloquenza subdola e lusinghiera, dall’altro lato prova indignazione per la prepotenza e l’ingiustizia che regolano e governano l’umanità dai tempi dei tempi. Nulla è cambiato da allora? Barabba è qui e torna a beffarsi del suo alter ego Gesù Cristo, quel figlio di Dio che salì in croce e morì al posto suo. E noi? Seduti a teatro, immersi nel rituale della catarsi, quale salvezza andiamo cercando?

Barabba
di Antonio Tarantino
con Michele Schiano di Cola
regia Teresa Ludovico
spazio scenico e luci Vincent Longuemare
assistente produzione Domenico Indiveri
produzione Teatri di Bari

durata: 60′
applausi del pubblico: 2′

Visto a Bologna, Teatri di Vita, il 26 gennaio 2023

 

 

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