«Una linea spezzata in un punto forma un angolo. Ma ad una linea spezzata simultaneamente in ogni suo punto si dà il nome di curva».
Chissà se in questa frase, dello scrittore russo Daniil Kharms, Bob Wilson ha trovato, come sembra a noi, la sintesi perfetta di un lavoro, “The old woman”, e di un’intera carriera. Spezzare la realtà, spezzare il movimento dei corpi: non col narcisismo dell’iconoclasta, ma per inseguire le traiettorie di una parabola nuova, conoscitiva.
Al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti di Spoleto ci troviamo ad assistere all’evento forse più atteso della cinquantaseiesima edizione del Festival dei 2Mondi. Non è una novità la collaborazione fra Wilson e il Festival di Spoleto, ma l’opportunità di conoscere dal vivo il lavoro di un maestro dell’avanguardia che è già su tutti i libri di storia dà comunque un certo senso di responsabilità e inadeguatezza, come se si fosse tutti testimoni, alle prese però con una delle arti più difficilmente testimoniabili.
In particolare, per gli addetti ai lavori e gli appassionati di teoria, gli spettacoli di Wilson sono una delle realizzazioni più alte del ritorno ad (o del permanere di) un regista come «deus ex machina»; situazione opposta alla maggior parte del teatro contemporaneo, dove al regista spetta piuttosto un compito di sintesi, a partire dalle drammaturgie già germogliate negli attori.
Davanti agli occhi ci fa da sipario una tela dipinta, un paesaggio a tinte bianche e nere che fa pensare ai fiamminghi ma anche alle stilizzazioni orientali, com’è evidente dalle sagome cartonate di un cane rosso e di un uomo blu, appese davanti al sipario.
Mentre le sagome cominciano a muoversi e ad inseguirsi, le armonie minime del tappeto musicale (forse una rielaborazione di “You’re innocent when you dream” di Tom Waits) vanno poco a poco a salire. E già qui verrebbe voglia di rimanersene fermi a ricevere sensazioni senza pensiero, come se fossimo davanti ad una gigantesca pratica zen.
Ma l’equilibrio è rotto, ancor prima che si alzi il sipario, dall’ingresso dei due attori di fama internazionale che Wilson ha diretto in quest’occasione: Mikhail Baryshnikov e Willem Dafoe.
Fin da questa scenetta introduttiva i due indossano quei panni da mimo su cui il regista americano ama lavorare. Impugnano un martello, poi un orologio con una mano disegnata al posto della lancetta. Mostrano fin da subito quelle dinamiche di coppia, molto da cinema slapstick, la cui orchestrazione guiderà lo sviluppo dello spettacolo.
Si alza il telo e Baryshnikov e Dafoe sono ora su un grande pannello orizzontale montato a mo’ di altalena. Ed ecco qui la celeberrima luminotecnica wilsoniana, capace di lasciare a bocca aperta anche chi non ha in questo campo uno sguardo analitico: dominano i neon, le tinte azzurrine, cobalto.
Si sperimenta un clima biblico da Genesi, perché sono le luci a dare vita e a determinare, attimo per attimo, gli elementi scenici: spesso è perfino difficile stabilire i colori effettivi, materici, tanto la sostanza di tutto ciò che è in scena è piegata ai cromatismi scelti dal regista.
Il geometrismo di Wilson, radicato nella sua formazione vicina alla danza e all’architettura, ingloba ed esalta le qualità fisiche e vocali dei due interpreti, che cominciano a dialogare attraverso i frammenti testuali di Kharms.
Come diceva Decroux, il fondatore dell’arte mimica novecentesca, «la maschera è un’invenzione socialista», nel senso che libera l’attore dalla schiavitù del realismo. In Wilson la stessa cosa succede con la biacca sui volti del duo Baryshnikov-Dafoe: soltanto in alcuni momenti il loro gesto scenico evoca la porzione di testo citata; molto più spesso invece l’azione corporea è soltanto un elemento, seppur decisivo, della qualità visiva, del nitore e della trasparenza dell’insieme.
Rispetto a quanto si era visto nelle regie di “L’ultimo nastro di Krapp” e “Giorni felici”, la scenografia pare qui ancor più antirealistica: si esprime spesso per poligoni, linee spezzate o curve. E difficilmente sarebbe potuto accadere qualcosa di diverso, nell’incontro tra la ricerca astratta di Wilson e l’assurdo di Kharms.
Per il resto, come quasi sempre succede con Wilson, chi scrive dei suoi spettacoli deve rinunciare alle ambizioni descrittive: impossibile davvero è raccontare l’effetto per gli occhi, l’atmosfera fredda e magica al tempo stesso, frutto del congiungimento fra la tecnica più precisa e la più scompigliata fantasia.
Per dare un’idea della struttura di questo spettacolo, può forse essere utile ricordare le osservazioni famose che il regista fece sullo spezzone di un film in cui una madre reagisce con affetto al pianto del figlio: separati l’uno dall’altro, i singoli fotogrammi mostrano una mimica per nulla coerente; l’impressione finale di affetto nasce in realtà da una sequenza di stati d’animo apparentemente diversi, che vanno dalla rabbia allo stupore all’avvilimento. Riflessioni estetiche datate, ma di cui si sente ancora la presenza in “The old woman”, drammaturgicamente fondato sulla ripetizione dello stesso frammento testuale o della stessa sequenza scenica, in una serialità che non può non far pensare ai minimalisti della musica come Reich e Glass (con cui Wilson ha infatti collaborato nel celeberrimo “Einstein on the beach”). Un artificio che serve al regista per suggerire l’esistenza di altri ritmi percettivi, di diverse grammatiche di senso rispetto a quelle quotidiane.
L’incontro con la scrittura algida e iterativa di Kharms, con le sue vecchiette che si affacciano alla finestra e, per troppa curiosità, si sporgono fino a cadere una dopo l’altra, una sopra l’altra, permette a Wilson di scavare le sue architetture di luci, forme e corpi in un contesto che già in partenza rinunciava alla diegesi.
Ancor più facilmente si può quindi creare scenicamente il vuoto, con l’obiettivo di raggiungere, fuggendo dal pieno del quotidiano, un nuovo spazio dove le relazioni fra gli uomini e i loro corpi siano studiabili e, soprattutto, rinnovabili.
Il ritmo viene scandito dai batacchi e dai campanelli che separano una scena dall’altra: la stessa immagine evocata dal testo e la stessa stringa di codice verbale possono essere ripetute attraverso due impostazioni sceniche del tutto diverse. Così, il calligrafismo assurdo di Kharms può essere spostato sotto un chiaro di luna, Baryshnikov e Dafoe agli estremi del palco, di spalle, raccontando con la lentezza estrema della rotazione del busto la storia di un incontro, mentre la contrazione di ogni muscolo coagula un’intensità emotiva che cattura lo sguardo; ma, dopo l’ennesimo riavvolgimento, l’incontro sotto lo stesso chiaro di luna è ribaltato in un duello, segnato dal fuoco di una pistola di cartone e dalla luce rossa che macchia di sangue – con geniale infantilità – una forma poligonale calata dall’alto.
Il maggior virtuosismo di questo lavoro, l’esito più evidente dell’acribia avanguardista di Wilson, sta tutto nella gestione delle transizioni, nei cambi di ritmo e di energia: le pause sono sottolineate come linee calcate sulla partitura; Baryshnikov e Dafoe, sulla cui prestazione si potrebbe scrivere un manuale dell’attore, seguono i cambi di tempo come fossero le corde sotto il plettro di Robert Fripp.
Siamo di fronte ad un’accademia delle forme, forme dei corpi e dei sentimenti: lo spettatore è messo nella condizione di esperire lo iato fra il linguaggio verbale e la miriade degli altri coinvolti da Wilson, senza che tuttavia siano rintracciabili in entrambi i poli degli evidenti margini di autenticità.
L’autenticità potrebbe stare, probabilmente, soltanto nella percezione dello spettatore, nella sua disponibilità a relazionarsi con quanto accade sul palco fino ad arrivare, seguendo i ritmi della scena, a sospendere il distacco dell’attività giudicante, a smettere di pensare per inquadrare; si potrà vivere, allora, l’ipotesi di vedere le cose «un po’ più in là», di scovare bellezza in proporzioni perfette e sconosciute. La risata e il pianto, come succede spesso nella tradizione mimica, si giustappongono fino a confondersi; la rigidità dell’urlo (con le braccia aperte e la bocca spalancata) perde poco a poco le sue connotazioni emotive, diventando una semplice virgola del codice, tassello scenico senza un passato che lo annodi a un referente.
Torna in più scene la porzione di testo in cui Kharms racconta di un ragazzo dei nostri giorni che, pur sapendo fare miracoli, sceglie di non realizzarli. Viene sfrattato e potrebbe trasformare la catapecchia in cui è costretto a spostarsi in una villa. Ma non lo fa.
Così sembra essere per Bob Wilson: dal sacro organo delle sue tecniche e della sua regia potrebbe soffiare nelle canne chissà quali sontuosi assoli, miriadi di scale, voli di calabrone. E invece sceglie le tonalità minori della clownerie, della leggerezza malinconica: senza correre il rischio di languori, perché Wilson non dimentica mai, come un vecchio mistico, la linea verticale della perfetta esecuzione.
THE OLD WOMAN
regia, ideazione scene e luci: Robert Wilson
con Mikhail Baryshnikov e Willem Dafoe
di Daniil Kharms
adattamento di Darryl Pinckney
musiche a cura di Hal Willner
costumi Jacques Reynaud
collaboratore alle scene Annick Lavallée – Benny
lighting designer A.J. Weissbard
assistenti alla regia Lynsey Peisinger / Tilman Hecker
sound design Marco Olivieri
direttore di scena Jane Rosenbaum
direttore tecnico Reinhard Bichsel
capo macchinista Paolo Felicetti
supervisione alle luci Marcello Lumaca
assistente ai costumi Micol Notarianni
assistente di produzione Sarah Pujol
truccatrice Natalia Leniartek
delegato di produzione Simona Fremder
un progetto di Baryshnikov Productions, Change Performing Arts e The Watermill Center
commissionato e coprodotto da
Manchester International Festival
Spoleto 56 Festival dei 2Mondi
Théatre de la Ville Paris / Festival d´Automne
DeSingel Antwerp
produzione esecutiva CRT Milano / Centro Ricerche Teatrali
Visto a Spoleto, Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, il 12 luglio 2013