Be Arielle F. di Simon Senn a Short Theatre. (Non) corpi (non) in scena

Photo: simonsenn.com
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«Infine amo l’invito del paesaggio, ovunque conduca»: dovrebbero essere, a meno di sviste, le parole finali del saggio-racconto di John Berger sul Cavaliere Polacco di Rembrandt quelle che campeggiano sulla bacheca di Francesca Corona, premio Ubu due anni fa, co-direttrice artistica di Short Theatre con Fabrizio Arcuri. È una frase che potrebbe stare tranquillamente a epigrafe del festival, sempre spalancato all’esplorazione, una garanzia non estetica ma di metodo. Anche quest’anno, a posti ridotti, per certi versi a mezzeluci nonostante la programmazione ancora densa, con gli spazi dell’ex Mattatoio che sembrano un po’ più ampi, un po’ più distratti.

Ma no, forse è solo un’impressione. Prendiamo la serata dell’11 settembre: vi si susseguono, tra gli altri, l’ammiccante “Dream is the Dreamer” di Catarina Miranda, un ‘solo’ muscolare e anaerobico danzato da André Cabral, confezionato con smaglianti strumenti visivi e drammaturgia quasi iperuranica, convintamente disinteressato ai nostri giorni, onirico, lynchano, assoluto, compiaciuto dei propri voli – e, per ciò, a nostro avviso nobilmente trascurabile, oggi – e “Be Arielle F.” dello svizzero Simon Senn.

Già questi due punti potrebbero segnare gli estremi di quello sguardo sul paesaggio di cui si diceva. La performance del ginevrino è infatti agli antipodi del lavoro ricco di machinerie e illusioni della portoghese. Racconta la vicenda del suo autore: egli ha acquistato una scansione 3d di un corpo di donna su internet, l’ha sviluppato grazie all’aiuto di diverse persone, fino a poterlo “usare” per mezzo di sensori motion capture, possedendolo e conquistandosi così un secondo corpo virtuale.
A questo punto però si è chiesto cosa si potesse far fare a questa sua seconda identità, cosa fosse legalmente concesso, essendo la sua idea quella di farla manovrare agli spettatori durante una performance.

Trovando un grande buco legislativo in materia, decide di contattare, attraverso una ricerca online, la proprietaria di quel corpo. Giunge così in Inghilterra, e ha un colloquio con “Arielle F.” (è il nome che si è deciso di attribuire a quel corpo, e dunque alla ragazza che lo possiede), durante il quale la giovane mostra un commovente e spaventoso candore. Non ha approfondito né il senso né le conseguenze della sua vendita, conclusa in dieci minuti di scanning e al prezzo di poche sterline.
Il finale riserva un piccolo colpo di scena: nessuno di noi potrà applicarsi i sensori e muovere quel corpo femminile, come ci aspettavamo, ma Simon chiama al telefono la vera Arielle F., truccata e ben pettinata, che saluta e chiacchiera col pubblico.

Ora, tutti i manuali di letteratura, specialmente quelli di stilistica, sono costruiti sopra una tacita premessa: che un testo letterario non possa essere esaurito dal riassunto del suo contenuto. La materia e l’avventura della forma sono il senso più vero di un’opera. Bene, al contrario, tutto quanto detto sopra a proposito di “Be Arielle F.” è più o meno ciò che si può trovare in scena, sotto forma di racconto in prima persona: non c’è poi molto di più. Un racconto leggibile, diretto, prosaico, non particolarmente avvincente; una cronaca. Eppure anche l’asciuttezza e il rifiuto della retorica hanno bisogno di alcune qualità, come l’esattezza, il controllo, l’equilibrio – a meno che non si stia cavalcando espressionisticamente la retorica dell’antiretorica, ma non è questo il caso.
Invece nel lavoro di Senn quell’esattezza e quel controllo mancano: tanto per cominciare mancano nel testo detto, in cui alcuni snodi essenziali appena sfiorati, mentre altri passaggi risultano inutilmente prolissi; e poi anche nel testo-spettacolo nel suo insieme. Pare cioè che vi sia una certa incapacità di istituire un dialogo scenico consapevole con il pubblico, e che si stia procedendo, nel groviglio dei cavi, degli schermi, dei device, delle ramificazioni della trama, a tentoni.
Ci sentiamo insomma in un laboratorio un po’ confuso, nel quale però spereremmo, tra una provetta rotta e una scarica elettrica di troppo, che ci si ritrovasse a produrre un affondo purchessia. Suona patetico suggerirlo, ma l’attesa c’era: il tema del corpo, dell’alterità, del possesso, della mercificazione, della polverizzazione, liquefazione del sé, dell’identità non solo nominati, ma sottoposti a uno stress test lucido e impietoso.

Ciò non è, e si preferisce concentrarsi in primis su questioni burocratiche: cosa è o non è consentito fare, legalmente, con un corpo virtuale acquistato online; poi si sorvola rapidamente su ubbie psicologistiche, liquidate attraverso un breve contatto telefonico con una terapeuta pret-a-porter, trovata sempre in rete – perché in “Be Arielle F.” tutto si raggranella, si consuma, si esaurisce in rete. Insomma, la bocca rimane asciutta per un verso (manca l’espressione in una forma che abbia una sua autonomia, una sua solidità), e per l’altro (manca uno studio serio, adulto, su un tema così brillantemente trovato).

Ecco allora che il corpo, attorno al quale girerebbe l’intero spettacolo, argomento eterno e (e, guarda tu la fortuna!), anche à-la-page in tempi di Covid, rimane qualcosa di distante, semplicemente trascurato. Sono quasi risibili i tentativi estetizzanti (il corpo nudo di Simon mima i movimenti di quello di Arielle sullo schermo, entrambi bagnati da una luce siderale), e poco convincenti i tentativi di bucare quest’affastellarsi di piani (la videochiamata della vera Arielle) o di confonderli ancor di più (lo scambio dei volti: Simon su Arielle, Arielle su Simon), in un tentato vortice che non raggiunge la velocità necessaria a far decollare l’angoscia o la riflessione.

La mole di esperienze raccolta, le conversazioni con gli esperti (avvocati, tecnici informatici, psicologi), le diverse puntiformi riflessioni non fanno sistema, si direbbe, e il senso dell’operazione, al di là di un generico turbamento o di una garbata lumeggiatura erotica, qua e là, si sgrana come certa pietra friabile che sembra solida ma non resiste alla pressione di un pollice.
Rimane il corpo di Arielle sullo schermo, solo lui, accartocciato in una posa quasi horror, allacciato inesorabilmente ai sensori abbandonati in terra l’uno sull’altro, un grumo di carne virtuale a pulsare in un angolo, nel finale, senza vita eppure pieno di incomprensibile sofferenza.

Ed è un peccato, perché quel turbamento, quell’erotismo e ancor di più quel terrore dell’amputazione, della moltiplicazione di un sé incontrollabile, quel sacro terrore e quella panica voluttà della possessione del corpo erano lì, proprio lì, come vulcani le cui attese eruzioni sono state all’ultimo minuto rimandate.

Be Arielle F.
ideazione e regia Simon Senn
con Simon Senn; Arielle F. e un corpo virtuale
produzione Compagnie Simon Senn
coproduzione Théâtre Vidy-Lausanne Le Grütli, Centre de production et de diffusion des Arts vivants Théâtre du Loup
distribuzione e tour Théâtre Vidy-Lausanne
con il sostegno di Fondation suisse pour la culture Pro Helvetia; Fondation Ernst Göhner; Pour-cent culturel Migros; Porosus
una versione in-progress della performance è arrivata seconda ai PREMIO awards di incoraggiamento alle arti performative, che si sono svolti il 18 maggio 2019 al Théâtre Vidy-Lausanne

in francese e inglese con sovratitoli in italiano
si consiglia la visione a un pubblico maggiore di 15 anni

durata: 60′
applausi del pubblico: 2′

Visto a Roma, La Pelanda – Studio 2, il 12 settembre 2020

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